Dario Fo è morto, ma ne siamo proprio sicuri? Quel genietto buffo e impertinente, pieno di idee, fantasia, risate non può morire. Un uomo che era il teatro, come pochi lo sono stati e lo saranno.
Io Dario Fo l’ho vissuto a lungo, per coincidenze che fanno della mia una esistenza molto fortunata. Ero a Roma, all’Università e Ferruccio Marotti, professore di teatro, illuminato come pochi, ci faceva studiare il teatro orientale, Grotowsky, Peter Brook, Eduardo De Filippo e Dario Fo. Io conoscevo Fo di fama, a casa mia era molto seguito. I miei mi raccontavano di quando andavano a vederlo in un teatrino romano, forse un teatro tenda, dove lui, allora controllato dalla polizia, dava il benvenuto ai poliziotti in borghese che speravano di confondersi fra la folla. I miei dicevano di avermi portata una volta, da piccola. Io vagamente qualcosa ricordavo, ma forse erano solo i racconti di mamma e papà che si erano conficcati nella mia memoria.
Insomma, all’Università mi trovo a lavorare con questo gigante, sicuramente buono e bonariamente birichino, sulla scrittura teatrale. Eravamo tanti e fra coloro che gremivano la sala ai primi incontri c’erano anche nomi destinati a diventare famosi, come Gabriele Muccino. Io, insieme a pochi altri, superai delle selezioni che non sapevamo ci fossero e iniziammo a lavorare a fianco di questo signore sempre sorridente e disponibile ad ascoltarci. Eravamo tutti pupetti che volevano fare e alcune volte strafare, pendevamo ovviamente dalle sue labbra e passavamo ore ad ascoltare i suoi racconti, i suoi consigli, i suoi esempi. Nulla aveva sapore accademico, era tutto puro teatro condito da tanta vita. “Ricordatevi che la realtà fornisce commedie già scritte, non dovete fare altro che prendere e ritoccare qua e là” ci diceva descrivendo come aveva iniziato a pensare “Morte accidentale di un anarchico”. E ancora: “una storia è valida se la si può raccontare in tre parole”, “prendete Shakespeare: il testo è scritto talmente bene che anche se lo fa la peggior compagnia di teatro, dopo un po’ vi scordate di quanto sono cani e rimanete a sapere che fine fanno Romeo e Giulietta”.
Ricordare Dario Fo, ora, dopo tanti anni, riporta alla mente troppe immagini, frasi, emozioni che è difficile dipanare. Lui era il teatro, ma lo era profondamente. Era un artista venuto dal pennello e che con un altro pennello, quello intinto nell’inchiostro, aveva creato opere finissime e immortali. Ricordo le giornate passate accanto a lui, nel suo camerino del Teatro Quirino, quando di pomeriggio dipingeva i personaggi e le scene de “Il malato immaginario” che avrebbe dovuto dirigere di lì a poco a Parigi. Mi raccontava come vedeva i loro abiti, i colori, le loro stanze. Il perché di un velo, di un muro, di un particolare che diventava immediatamente vitale quando te lo raccontava lui. Ricordo quando dai nostri piccoli raccontini di studenti universitari lui tirava fuori, senza preparazione alcuna, interi copioni fatti di nuvole, cielo, volti, monti e così via.
Dario osservava e faceva dell’osservazione il suo teatro. L’ultima volta che ci siamo visti eravamo a New York, recitava con Franca al Bard College – un piccolo teatrino all’interno del famoso college vicino alla Columbia University. Durante le prove mi chiese “ma perché io recito in un teatrino così piccolo?” Non era immodestia, di cui non mi sembra fosse capace, almeno per come l’ho conosciuto io. Era che le due serate erano tutte esaurite da giorni e lui non si capacitava come mai non si riuscisse a farlo in un posto più grande che accogliesse tutti quelli che alla fine rimasero fuori.
Era già molto anziano e aveva voglia di tornarsene a casa sua. Appariva affaticato e anche non così voglioso di girare il mondo come aveva fatto in precedenza, quando – parlo della fine degli anni ottanta – era l’autore italiano di teatro più tradotto nel mondo intero. In quel soggiorno newyorkese mi capitò di passeggiare con lui, da sola, per le strade di New York. Guardava la gente, in silenzio. Ad un certo punto mi disse: “Hai notato che non si toccano mai?” Sorrisi. I suoi occhi erano uno scanner, mentre si muoveva con calma per la 51ma strada. Dario guardava e toccava con gli occhi, con le mani e col cuore. Era un artista che usava tutti i sensi per assimilare e creare. Aveva inventato un modo di raccontare le storie unico anche se proveniente da lontano – diceva di averlo appreso dai pescatori della valle del Po – e questo modo lo aveva poi condiviso con la sua anima gemella che gli faceva un po’ da mamma, Franca Rame.
Franca gli aveva donato una tradizione teatrale antica, quella della sua famiglia, i Rame, compagnia teatrale itinerante alla maniera dei Comici dell’arte. Insieme crearono un teatro fatto di niente, ma pieno di contenuto e con storie perfettamente scritte e portate in scena. Dario aveva personalizzato lo stile giullaresco del Gramelot e con quel mare di suoni che diventano anche parole, aveva parlato di politica, di anarchia, del potere del Vaticano, della bellezza dei semplici e dell’efferatezza dei potenti. Con le sue commedie aveva raccontato della polizia che ammazza e non viene punita, del rapimento Moro, di antiproibizionisti, di AIDS, di operai e di santi. Un giorno, a Spoleto, durante il famoso Festival dei due mondi, camminavamo in fila indiana lui, io e a seguire mia madre. Lui mi dettava, in cammino, la mia prima lettera di raccomandazione per avere un visto negli Stati Uniti. Si interrompeva ogni tanto per chiedermi se davvero mi volevo trasferire a New York. Non condivideva molto. Ad un certo punto ci fermammo, lo guardai con riconoscenza, mi avvicinai e gli dissi: “grazie per avermi insegnato a capire il teatro”. Senza farci molto caso, rispose: “lo so”.
Avrei voluto dirgli di più come tutti quelli che in queste ore lo stanno ricordando. Parlo di lui sempre, ai miei attori, ai miei colleghi, agli studenti. Penso a lui quando vado a teatro o quando leggo un copione. Oggi Adriano Sofri ha detto, nel ricordarlo, che Dario e Franca hanno toccato molti e che questi molti hanno – ciascuno – un ricordo preciso dei due. Per questo dico che Dario non è morto e mai morirà. Fin quanto ci sarà quel ‘Tento ti” di Bonifacio VIII e tutte le altre meraviglie che ci ha lasciato, Dario sarà sempre e comunque il nostro più geniale giullare.
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