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October 14, 2016
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October 14, 2016
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Quel voto contro le città dei matti straricchi da legare

Le grandi città non sono abitate solo dai ricchi e potenti, ma statisticamente attraggono più malati mentali

James HansenbyJames Hansen
new york time square
Time: 2 mins read

Per molti versi, il voto Brexit ha rappresentato la rivolta del resto dell’Inghilterra contro Londra, una città notoriamente abitata da “esperti”, dai ricchi e dalla finanza, da grandi manager e da un Governo spesso sordo; persone e entità che stanno bene e non hanno motivo di cambiare granché. Qualcosa del genere alimenta la candidatura dell’improponibile Donald Trump negli Stati Uniti. Il paese è dominato dalle due coste urbanizzate, Est e Ovest, e popolato in mezzo da gente che invece conta relativamente poco e che ora pensa di sputare nell’occhio per l’appunto agli esperti, alla finanza e al Governo sordo incarnati da Hillary Clinton. Trump è la Cicciolina degli americani. Essere impresentabile fa parte del suo appeal.

Il mondo è governato dalle città. Gli abitanti “della Capitale”—politica o economica che sia—decidono tutto, o quasi. Fino a tempi relativamente recenti non era così. Le comunicazioni, inefficienti e lente, obbligavano a lasciare molte decisioni a livello locale. Il Direttore di una banca doveva per forza avere un’ampia autonomia, come anche il Questore nella direzione della polizia. Le scelte a volte cretine che arrivavano dalle metropoli trovavano il tempo che meritavano.

Nel contesto d’oggi, l’urbanizzazione spinta del potere dà un nuovo senso al corposo volume di ricerche secondo le quali le malattie mentali sono molto più comuni nei grandi centri abitati che altrove. Il fenomeno—che non è marginale—è stato notato per la prima volta oltre un secolo fa negli Stati Uniti quando ci si è accorti della sorprendente preponderanza nei manicomi dell’epoca di persone provenienti dalle zone più fortemente urbanizzate. Da allora, lo stesso effetto è stato riscontrato in tutto il mondo.

Lo studio moderno più noto è danese, compiuto nel 2001 dai ricercatori Carsten Bøcker Pedersen e Preben Bo Mortensen. È stato fatto su un enorme campione di 1,89 milioni di persone, incrociando dati anagrafici con altri provenienti dal servizio sanitario per studiare come variava l’incidenza della schizofrenia rispetto alla densità abitativa. Non solo ha confermato l’esistenza del fenomeno, ma ha dimostrato che l’effetto cresce con la durata della residenza urbana—e che chi abita più di cinque anni in una metropoli ha una possibilità maggiore del 40 percento di vedersi diagnosticare la schizofrenia.

Che il fenomeno sia reale è ormai indubbio. Le cause invece sono controverse. La questione in fondo si riduce a una domanda in apparenza semplice: sono le città che attirano i pazzi o è la vita urbana che fa perdere la ragione? I dati danesi sull’effetto della durata della residenza parrebbero confermare l’idea che sia proprio l’ambiente metropolitano a far diventare progressivamente più svitati. Altri studiosi propendono invece per meccanismi come l’auto-selezione—l’idea che forse i disturbati mentali rurali e dei centri minori potrebbero tendere a gravitare verso le grandi città.

Per i nostri scopi “geopolitici”, la controversia sulle cause può essere interessante, ma in fin dei conti la cosa importante è la constatazione che il mondo sviluppato è in una parte non trascurabile amministrato da individui con una probabilità statistica maggiore del resto della popolazione di essere seriamente fuori di testa.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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