Ai lettori de La VOCE di New York chiedo pazienza, non solo attenzione. Cerco di parlare di “memoria”. E’ una cosa importante, la memoria. Non per un caso Leonardo Sciascia intitola una bella, preziosa collana curata per la Sellerio, proprio Memoria: di testi che rischiano di andare perduti; e per lasciare una traccia, un “segno” per chi “dopo” verrà… La prendo alla lontana, per questo che vi ho avvertito: pazienza e attenzione.
In Italia c’è un cantautore, è una specie di mito, Francesco Guccini. Chi vive a New York, o comunque fuori dall’Italia, ne può trovare “tracce” grazie ad internet. Nel 1966 Guccini scrive una canzone, Auschwitz; tradotta in inglese, la canta Tommy Scott. L’ispirazione per questa canzone a Guccini viene dopo la lettura di un romanzo autobiografico di Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino. Un romanzo dove racconta di quando era rinchiuso nel lager di Mauthausen. Il testo della canzone è narrato da due voci: il protagonista, un bambino prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz. La seconda è quella dell’autore che si pone domande a cui non c’è risposta possibile.
Questo il testo di Guccini:
“Son morto con altri cento, / son morto ch’ero bambino/ passato per il camino/ e adesso sono nel vento…/ Ad Auschwitz c’era la neve, / il fumo saliva lento / nel freddo giorno d’inverno / e adesso sono nel vento…/ Ad Auschwitz tante persone, / ma un solo grande silenzio: / è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento, / a sorridere qui nel vento… / Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello / eppure siamo a milioni / in polvere qui nel vento, / Ancora tuona il cannone, / ancora non è contento / di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento / Io chiedo quando sarà /che l’ uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare /e il vento si poserà e il vento si poserà…”.
Questo il testo in inglese:
“I died when I was a child / I died with hundreds of people / From a furnace through a chimney / and now I am cradled by the wind / At Auschwitz, snow on the ground / The smoke it drove so slowly / In the fields lay the ashes / Of the people which spread in the wind…”.
Una canzone, si dirà; ma anche le canzoni, proprio perché tali, a volte sono importanti: simboli, e non solo simboli; e si pensi a We shall overcome.
Ricordarsi in queste ore Guccini, canticchiarlo, trasmetterlo potrebbe avere una sua utilità, per quel che riguarda la “memoria”, e più in generale la “conoscenza”. Per quel che riguarda “memoria” e “conoscenza”, preziosa, necessaria diventa la rilettura (o la lettura, temo) di Primo Levi. Si prenda Se non ora, quando?: racconto dell’odissea di un gruppo di partigiani che tra il 1943 e il 1945 parte dalla Russia, attraversa l’Europa, e approda in Italia. A Levi il titolo viene suggerito da alcune parole trovate nei Pirke’ Avoth, Le massime dei Padri: raccolta di detti di rabbini famosi redatta nel secondo secolo dopo Cristo, e che fa parte del Talmud. Vi si legge: “Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”. Levi adatta queste parole come ritornello di una canzone dei suoi partigiani: “I nostri fratelli sono saliti al cielo, per i camini di Sobibor e di Treblinka, si sono scavati una tomba nell’aria, solo noi pochi siamo sopravvissuti…”.
La Giornata della Memoria è il recupero di un “sapere” che troppe volte negato, dimenticato: di quello che è stato, di quello che i nazisti, con la complicità dei fascisti italiani, ma anche dei pétenisti francesi e di tanti altri “complici” in Europa (complici nel fatto; complici con il loro silenzio e le loro inerzie, Vaticano compreso), hanno fatto patire ad ebrei e zingari, omosessuali e minorati mentali e fisici. La giornata della Memoria è un “luogo” di riflessione e di dialogo con se stessi, e i tanti noi stessi.
Tornano anche utili anche i film. Se ne possono citare tanti, e qui per tutti uno, cui auguro una larga diffusione e visione. Riguarda il “caso” di Adolf Eichmann. Un “caso”, e un processo, famoso, storico. Ideale prosecuzione di quello a Norimberga, dove molti gerarchi nazisti vengono condannati a morte, e altri sono “salvati”, perché faranno comodo sia agli Stati Uniti che all’allora Unione Sovietica. Lo si capisce vedendo un film di Stanley Kramer del 1961, Judgment at Nuremberg, Vincitori e vinti, con Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark, Marlene Dietrich, Maximilian Schell. Il giudice del tribunale Dan Haywood, interpretato da Tracy, alla fine del film dice la parola chiave, riferendosi alle condanne che emetterà contro i criminali nazisti: “Lo so che non è saggio, ma è giusto”.
Per tornare al “caso” Eichmann: in Israele il processo è trasmesso in diretta alla radio; e anche tutto il mondo. Hannah Arendt, presente alle udienze, ne ricava un libro che vale ancora per l’oggi: La banalità del male. Quel processo, con la prima missione spaziale sovietica (quella di Yuri Gagarin), è l’evento del 1961. Eichmann è uno degli ideatori della “soluzione finale”. Il servizio segreto israeliano, il Mossad lo cattura nel 1960 in Argentina. Gideon Hausner, il pubblico ministero, impiega giorni e giorni per spiegare, nella sua requisitoria, come e perché lo Stato di Israele ha il diritto di perseguire uno dei responsabili dello sterminio di sei milioni di ebrei. E’ di questa vicenda che parla The Eichman Show, il film di Paul Andrew Williams. Una documentazione di prima mano, a partire dalle sequenze del processo, che già un paio di anni fa Margarethe von Trotta ha mostrato nel suo Hannah Arendt; e prima ancora, nel 1999, la rielaborazione dal franco-israeliano Eyal Sivan autore del documentario Lo specialista (ripetere giova).
Quelle del processo Eichmann sono fra le riprese televisive più famose nella storia dei media, ma la loro genesi rimane relativamente poco conosciuta. The Eichman Show ricostruisce i retroscena, i protagonisti di quanti furono impegnati in questa grande, complessa operazione non solo giudiziaria, ma anche mediatica: che non c’erano le tecnologie di oggi, e ugualmente si doveva assicurare all’evento la massima conoscenza possibile; i nastri magnetici (allora quelli si usavano) li si doveva portare da Gerusalemme in tutto il mondo per posta aerea; e prima bisogna doppiarli e sotto-titolarli. Cosa che richiedeva molto impegno e lavoro. Si deve al fiuto e alla caparbietà di un produttore televisivo, Milton Fruchtman, se il “caso” diventa un evento globale, capace di trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza “spettacolare” e l’etica della responsabilità e della testimonianza. E’ Fruchtman a scegliere come regista Leo Hurwitz, da tempo disoccupato perché finito nella “black list” in cui il senatore Joseph McCarthy ha confinato i sospettati di attività antiamericane.
Williams racconta le difficoltà anche tecniche che Fruchtman e Hurwitz devono superare: i giudici israeliani temono che la presenza delle telecamere possa falsare l’andamento delle udienze; per evitare questo rischio si mette a punto un sistema di riprese nascoste. Ma è lo stato delle tecnologie a rendere delicato il lavoro della troupe. Non c’erano, all’epoca, registrazioni di sicurezza: tutto quello che non viene subito impresso sul cosiddetto “mastro” si perde per sempre. Hurwtiz, per esempio, non riesce a catturare il malore di uno dei testimoni che, sopraffatto dell’emozione, sviene mentre lascia l’aula. Anche in quell’istante, per una precisa scelta registica, la telecamera è puntata sull’imperscrutabile Eichman, nel tentativo di cogliere un suo pur minimo cedimento.

L’importanza della memoria: la trasmissione contribuisce in modo decisivo a far conoscere quanto è accaduto nei campi di sterminio, rendendo di dominio pubblico orrori che anche molti cittadini israeliani si erano rifiutati di prendere in considerazione. Il programma di Fruchtman e Hurwitz è l’equivalente di Se questo è un uomo in letteratura: la casa editrice Einaudi inizialmente lo ritiene inadatto alla pubblicazione; viene pubblicato solo nel 1958, appena tre anni prima del processo Eichmann. “Solo la televisione può farlo”, ripete il Fruchtman di Williams, quando si tratta di strappare il consenso alle riprese da parte del primo ministro israeliano Ben Gurion. Oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, è giusto domandarsi se la televisione sia ancora in grado di intervenire con la stessa forza e con immutata integrità morale; se ci siano ancora dei Fruchtman e degli Hurwitz animato da eguale tensione morale. E non che manchino occasioni per analoghi processi, che di “olocausti” se ne consumano tanti, nel mondo; e sotto i nostri occhi, e impuniti.
Un solo esempio, tra i molti. Soffia, in questi giorni, un vento di pace e di riconciliazione con l’Iran. Un processo avviato dagli Stati Uniti e poi dall’Europa. Sull’Iran, che è una delle parti in causa, si conta per risolvere in qualche modo la complessa situazione in Medio Oriente; e poi, ovviamente, i lucrosissimi affari che si possono imbastire con gli ayatollah di Teheran. Il volto sorridente del presidente iraniano Hassan Rouhani improvvisamente è diventato rassicurante, “buono”. Del resto, l’elezione di Rouhani nel giugno 2013 è stata salutata da (quasi) tutti come una svolta: il mullah “riformatore”, “moderato”… C’è il “dettaglio” dell’uso sistematico della pena di morte, applicata anche nei confronti di imputati minorenni in aperta violazione di patti e convenzioni internazionali che l’Iran ha ratificato, ma non si può avere tutto; c’è la metodica, programmatica discriminazione delle minoranze religiose, con particolare riferimento ai Baha’i e ai cristiani, la discriminazione legale nei confronti della donna, la persecuzione delle minoranze sessuali, la teorizzazione che tra i progetti da porre in essere c’è la distruzione dello Stato di Israele, il negazionismo della Shoah… tutti “eventi” promossi sotto la protettrice ala della Guida Suprema Khamenei, e che convivono sotto la Presidenza del “moderato” e “sorridente” Rouhani… Si legittima internazionalmente un regime che al proprio interno conduce una guerra di lunga durata e una quotidiana campagna di terrore e insicurezza nei confronti del proprio stesso popolo. Il vero volto del regime iraniano non è quello “ufficiale” del sorridente Rouhani, esibito nei summit internazionali, ma quello delle almeno 2.277 esecuzioni compiute sotto la sua presidenza, il primato di esecuzioni, di violazioni dei diritti umani oltre all’invocazione della distruzione dello Stato di Israele.
Rohani è in visita ufficiale in Italia e in Francia proprio nei giorni in cui, nelle aule pubbliche dei due paesi risuonano le parole “non dovrà ripetersi più” per la Giornata della Memoria. Dall’inizio della presidenza Rouhani il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato: almeno 2.277 prigionieri sono stati giustiziati in Iran. Nel 2015 sono state effettuate almeno 980 esecuzioni, il 22,5 per cento in più rispetto alle 800 del 2014 e il 42,6 per cento in più rispetto alle 687 del 2013; è il numero di esecuzioni tra i più alti nella storia recente dell’Iran, è il primo “paese-boia” del mondo in rapporto al numero di abitanti. I reati che hanno motivato le condanne a morte sono così suddivisi in termini di frequenza: traffico di droga (632 esecuzioni); omicidio (201); stupro (56); reati di natura politica (16); moharebeh (fare guerra a Dio), rapina, estorsione e “corruzione in terra” (22). In almeno 53 altri casi, non sono stati specificati i reati per i quali i detenuti sono stati trovati colpevoli. Almeno 53 persone sono già state giustiziate nelle prime due settimane del 2016. L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia in Iran, ma nell’aprile 2013 è stata reinserita la lapidazione in una precedente versione del nuovo codice penale che l’aveva omessa come pena esplicita per l’adulterio. Le esecuzioni pubbliche sono continuate nel 2015 con almeno 58 persone che sono state impiccate sulla pubblica piazza. L’esecuzione di donne è leggermente diminuita nel 2015: sono state almeno 15, compresa una minorenne al momento del fatto (8 per droga, 2 per omicidio, 5 per reati non specificati). Nel 2014 le donne impiccate erano state almeno 26. Le esecuzioni di minorenni sono continuate nel 2015, fatto che pone l’Iran in aperta violazione del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato. Sono stati giustiziati almeno 6 presunti minorenni al momento del fatto, compresa una donna. Un altro minorenne sarebbe stato giustiziato nel 2016, al 20 gennaio.
Lettori de La VOCE, vi avevo avvertito: attenzione, pazienza. Non solo. Chiedo anche “partecipazione”: la memoria, il “ricordo”, la conoscenza sono importanti, essenziali; sono l’unico antidoto per impedire che quello che è stato, si ripeta; che il passato non passi; no è solo il sonno della ragione che produce mostri. E’ anche, soprattutto, la mancanza di memoria, il non sapere. Se “ieri” può insegnare qualcosa all’“oggi” e servire per il “domani”, è che il Male e la sua “banalità” sono qualcosa che è in noi e non dobbiamo mai cessare di contrastarlo e combatterlo. Ovunque si manifesti, e quale sia la “giustificazione” dietro la quale lo si cerca di celare e occultare. “Se non ora, quando? Se non così, come?”.
Tantissime le iniziative organizzate a New York in occasione della Giornata della Memoria.
Al Consolato di New York la lettura dei nomi di tutti gli ebrei italiani deportati dai nazi-fascisti
A New York, mercoledì, 27 gennaio, tra le 9 am e le 4 pm, diplomatici, rappresentanti delle istituzioni e società civile prenderanno parte alla lettura dei nomi di tutti gli uomini, donne e bambini ebrei deportati dall’Italia e dai territori italiani durante la persecuzione fasci-nazista.
La cerimonia si svolgerà su Park Avenue, davanti al Consolato Generale d’Italia (angolo 69 St, Subway linea verde 6, fermata Hunter College) che promuove l’iniziativa in collaborazione con Centro Primo levi, Istituto Italiano di Cultura, Casa Italiana Zerilli Marimò dell’Università NYU, Italian Accademy dell’Università Columbia, Istituto italo-americano John Calandra dell’università CUNY. In occasione della Giornata si terranno inoltre altri eventi, come quelli educativi alla Scuola d’Italia Guglielmo Marconi ed alla High School of Science del Bronx.
>>Guarda la toccante testimonianza di Nedo Fiano, fiorentino, sopravvissuto ad Auschwitz: