Alberto Spampinato a lungo non riuscì a parlare della morte di suo fratello Giovanni, giornalista giovanissimo, corrispondente da Ragusa del quotidiano palermitano L’Ora, ucciso la notte del ventisette ottobre del ’72, sono trascorsi quarant’anni, un delitto di mafia non immediatamente riconducibile a questa matrice, tanto forte era l’intreccio che lo caratterizzava, di più elementi combinatisi tra loro, eversione di estrema destra, insabbiamenti, depistaggi, traffici illegali, sentenze assolutorie.
Alberto aveva iniziato un altro percorso, studiava ingegneria, quando uccisero suo fratello abbandonò gli studi e scelse di continuare il lavoro di Giovanni, divenendo anch’egli giornalista. Tre anni separavano i due fratelli, nati da una famiglia progressista di Ragusa, città erroneamente ritenuta avulsa dalla mafia, per questo tra le più “babbe”; il padre Giuseppe aveva combattuto con i partigiani di Tito per sconfiggere il nazifascismo, non fu facile vivere in Sicilia l’ideale comunista come spinta al progresso e all’emancipazione, come trasparenza nella ricerca della verità, come stile di vita semplice e diretto, lontano da ogni compromesso. Così viveva e avrebbe voluto continuare a vivere Giovanni Spampinato, ventisei anni non ancora compiuti, con la chiarezza interiore di ricercare la notizia per il dovere di informare i cittadini su quanto accadeva, disvelando quelle trame oscure sempre più fitte, difficili da districare. Alberto seppe subito quel che doveva fare per venire a capo di una morte ingiusta e straziante, come ogni morte violenta che lascia vittime anche i familiari degli uccisi. C’era da capire quali fossero le vere cause della morte di Giovanni, cosa ci fosse dietro la confessione, rilasciata, consegnandosi ai carabinieri subito dopo l’omicidio, da Roberto Campria, all’epoca trentunenne, figlio di un alto magistrato di Ragusa, già inquisito per l’uccisione, avvenuta agli inizi di quell’anno, dell’ingegnere Angelo Tumino, di avere sparato contro Giovanni Spampinato al volante della sua Cinquecento. Era stato il caso Tumino, insabbiato rapidamente e con maestria, ad avvicinare Giovanni al giovane Campria, la vicenda era torbida, lui indagò a fondo, meglio di quanto un inquirente e un magistrato avrebbero saputo fare; la presenza di personaggi legati alla destra eversiva, del resto, in Sicilia non era una novità, Stefano Delle Chiaie, tanto per fare un nome, si aggirava tra Siracusa e Ragusa alla luce del sole, indisturbato, a conferma di quel filo ininterrotto che univa stragismo e coperture istituzionali, o meglio disegno eversivo condiviso. La storia di Alberto Spampinato racconta un uomo ferito che non si rifugia mai nel ruolo della vittima, non si fa scudo con il dolore per andare avanti nel lavoro, iniziato nel ’74 a Palermo come cronista nella redazione del giornale L’Ora, poi nell’81 per dieci anni svolse l’intera carriera giornalistica, divenendo capo della redazione romana del quotidiano palermitano, transitando vent’anni fa all’Ansa, che lo vede ancora al lavoro come quirinalista.
Alberto Spampinato
La sua ricerca della verità intorno alla morte del fratello è stata consegnata alla concretezza di un libro, “C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per avere scritto troppo”, edito nel 2009 da Ponte alle Grazie, che ne custodisce l’intera memoria, attraverso l’indagine personale approfondita della storia dell’isola dalla Seconda Guerra Mondiale ai nostri giorni, un testo prezioso che partendo da una vicenda familiare, ripercorre la generalità degli eventi storici, politici, sociali della Sicilia, l’aria che da sempre vi si respira, colta davvero solo da chi vi è nato e lì ha vissuto quella miniera di conoscenza e sapere che è l’infanzia. Il titolo evoca parole spese da Giovanni un anno prima di morire, richiamando il ricordo della propria infanzia in campagna, tra gesti, visioni e sapori indelebili. Partendo dal presupposto che la professione giornalistica in Italia non è protetta, Alberto Spampinato ha lanciato nel 2007 la proposta di un osservatorio permanente sui cronisti italiani minacciati e sotto scorta e sulle notizie oscurate con la violenza, un lavoro di documentazione istituito formalmente nel 2009 dando vita ad “Ossigeno per l’informazione”, insieme alla Federazione Nazionale della Stampa e all’Ordine dei Giornalisti, ma vi partecipano anche l’Associazione Liberainformazione Articolo 21 e l’Unione Nazionale Cronisti.
La mafia, dice Spampinato, noi non riusciamo ancora a sconfiggerla perché non siamo riusciti ad inquadrarla culturalmente e non ne abbiamo una percezione, una concezione adeguata perché è una cosa molto complessa e, fra le altre cose, ha questa caratteristica che può esistere solo perché fa credere che non esiste; la mafia per agire opera in modo da cancellare le prove, fra le sue attività c’è l’oscuramento delle informazioni incisive che la riguardano, se non ci fosse questo, il lavoro di denuncia costante e martellante produrrebbe i suoi frutti, sarebbe forse possibile cominciare a parlarne al passato. Il pensiero corre al servizio radio televisivo pubblico che parla ogni tanto di mafia, ma sicuramente se ne potrebbe parlare meglio e di più: una volta abbiamo detto, in modo paradossale, ma non troppo, afferma Spampinato, che se la Rai spendesse, per seguire i fatti di mafia, le stesse risorse che usa per seguire le partite del campionato di calcio, nel giro di sei mesi questo criminale, subdolo agire si estinguerebbe, forse occorrerebbe più tempo, però una volta che gli angoli duri scompaiono, quando i problemi vengono portati sulla scena è più difficile tollerarli.
In Italia pensiamo di vivere in un Paese in cui la libertà di stampa sia completamente libera, noi assomigliamo, sostiene Spampinato, ai Paesi più liberi del mondo, abbiamo questa aspirazione, però, in realtà, qui succedono delle cose molto più gravi per cui l’Italia non è compresa tra i Paesi in cui la libertà di stampa è completamente libera. Nella carta redatta da Freedom House, questo grande istituto che classifica le nazioni in base allo stato della libertà di stampa presente in ciascuna di esse, tutta l’Europa, tranne l’Italia, è nella zona verde che indica totale libertà di stampa, la Russia, il Marocco, l’Algeria e molti altri Paesi sono completamente privi di libertà, noi siamo nella zona gialla dove la libertà in questo senso è parziale, sappiamo che ciò è dovuto alla concentrazione della proprietà delle testate e delle risorse pubblicitarie, poiché non sono separate attività editoriali ed attività politica e di governo.
Ma non è solo ciò che ha determinato questo declassamento fondamentale è il fatto che in Italia ci sono molti giornalisti minacciati, “Ossigeno per l’informazione” li segnala uno ad uno, la loro vicenda e i dati che li riguardano, nel 2012 siamo arrivati a 301 giornalisti italiani minacciati dal primo gennaio, mentre negli ultimi sei anni ben 1200 sono i giornalisti italiani che hanno subito minacce; nei dettagli è stata elaborata, da un gruppo che collabora con Ossigeno, una carta della “Geotermia delle minacce” da cui si evince che il fenomeno intimidatorio è presente oggi tanto al Sud quanto al Nord.
Non sono tutti minacciati dalla mafia, anche da imprenditori, da criminali comuni, non sono solo minacce fisiche, ci sono anche dei gravissimi abusi, vi sono giornalisti messi in difficoltà con querele che poi la stessa magistratura giudica pretestuose, tutto ciò condiziona moltissimo l’attività giornalistica critica, l’arena, la oscura, certi risarcimenti danni hanno una valenza intimidatoria. La strada maestra, sostiene Spampinato, è quella di depenalizzare la diffamazione, come si è fatto in tanti Paesi del mondo, dove ciò, sia chiaro, non ha significato la non punibilità, in Inghilterra c’è stata una battaglia civile su questo tema, contemplato in una legge approvata tre anni fa.