L’edizione 2012 di Pordenonelegge,evento di festa del libro con gli autori inaugurato tredici anni fa, in un settembre pallido e afoso, accoglie, in molteplici spazi diversificati, per le strade del centro cittadino, nelle piazze, in teatri, in conventi francescani del XV secolo, tra i tanti ospiti prestigiosi, due nomi di grande rilievo della letteratura e del giornalismo d’autore: lo scrittore e storico spagnolo naturalizzato messicano Paco Ignacio Taibo II e Gianni Minà.
Il primo autore prolifico di romanzi e saggi, di una produzione sterminata che attende di essere pubblicata, della più bella e intensa biografia di uno dei miti indistruttibili del ventesimo secolo, il medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, per tutti il Che, guerrigliero rivoluzionario ispiratore di sogni e pratiche di vita per almeno tre generazioni di militanti di sinistra, quando il mondo non era ancora globalizzato.
Il giornalismo italiano deve molto al secondo, autore sensibile fuori dal piatto conformismo dilagante che appiattisce e omologa l’informazione odierna, una voce fuori dal coro la sua, a cui si legano trasmissioni cult della Rai, divenute memorabili come “L’altra domenica”, di cui è stato fondatore con Arbore e Barendson, e “Blitz”, programma innovativo di Rai due, di cui fu autore e conduttore negli anni Ottanta. Minà ha raccontato il mondo dello sport e dello spettacolo con passione autentica, la stessa che ha mosso l’indagare le conflittualità sociali e politiche dei popoli sudamericani alla base del suo impegno giornalistico dalla fine degli anni Settanta. Cuba è un tema assai caro al giornalista militante Minà, nell’87 ne fece un documentario che è già storia, una lunga intervista al presidente Fidel Castro, in cui il “Lìder màximo” racconta, peraltro, del Che e non lo aveva mai fatto, esperienza, divenuta anche un libro e un reportage, ripetuta dopo il crollo del Muro di Berlino del 9 novembre 1989 che cambiò gli equilibri mondiali e consegnò i destini dei popoli al dominio incontrastato del capitalismo e del mercato. «Cuba nell’epoca di Obama», che è stato insignito quest’anno di una menzione speciale ai Nastri d’Argento, il più antico premio cinematografico d’Europa, assegnato dal sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani, è un lungometraggio di quattro ore e mezza, girato attraversando l’isola per mille chilometri, partendo da L’Avana fino alla base americana di Guantanamo. Minà compie un viaggio tra i giovani cubani, pone loro domande, li fa parlare del futuro, di quelle che sono le loro aspirazioni, le aspirazioni di un popolo per il quale la solidarietà non ha mai smesso di avere un posto d’onore nella vita della gente, in un paese che sulla solidarietà ha costruito il proprio agire politico.
Dice il giornalista: “C’era gente che viveva la disperazione sotto il Plan Condor, voluto da Nixon e da Kissinger per lo sterminio delle opposizioni nei paesi dove c’erano gli interessi delle multinazionali, i servizi segreti dei diversi paesi collaboravano tra loro con aiuti reciproci nell’eliminazione di soggetti scomodi, è successo tante volte, c’era chi criticava la lotta armata di Che Guevara, chi diceva che non c’era altra possibilità di uscire da quella tragedia”. Non si può dire forse che la tragedia dell’America Latina sia finita, aggiunge, ma che qualche luce si vede e questo ha contribuito a mettere in crisi le nazioni del nord del mondo perché improvvisamente le fanno una guerra fredda, Minà utilizza questo concetto della guerra fredda per descrivere quello che sta accadendo, una vera rivoluzione, silenziosa, ma che ha già cambiato ruoli e destini nello scacchiere mondiale.
Il fatto che il Brasile fra tre anni sarà la quinta potenza economica del mondo; il fatto che l’Argentina si è ripresa il suo petrolio nazionale che un presidente ladro come Menem aveva ceduto alla compagnia di stato spagnola; vedere che due nazioni indigene dove la maggioranza della popolazione non era mai arrivata a governare la propria vita, l’Ecuador e la Bolivia, riscrivono la costituzione per inserire norme come quella che equipara in termini di pena la violenza contro la natura alla violenza contro un essere umano, ciò è di una modernità che lascia senza parole, tutto questo come si può chiamare se non rinascimento? E il mondo, si rammarica Minà, non accoglie affettuosamente questi cammini prodigiosi, l’informazione non è in grado di raccontarci quello che sta succedendo o non lo vuole raccontare, dipinge questi capi di stato latinoamericani come figure folkloristiche, come personaggi di cui si può solo ridere.
Eppure, sostiene, il fatto che il creatore di Wikileaks sia riparato in Ecuador e vi abbia chiesto asilo politico non è un caso, il presidente dell’Ecuador non è uno sprovveduto, si è laureato negli Stati Uniti, ha fatto un master in Belgio, all’università di Lovanio. Bisognerebbe che la nostra informazione cominciasse a capire che sta succedendo questo perché i privilegi e le ruberie che le multinazionali avevano e praticavano prima, ora cominciano ad essere molto meno facili perché questi paesi stanno riappropriandosi della propria ricchezza, del proprio diritto di essere al mondo. Di nuovo Minà cita il caso dell’Argentina che ha finito di pagare il debito per cui la volevano u c c i d e r e nove anni fa e, oltre ad avere recuperato il suo petrolio, ha due nuove leggi, una sulla televisione e una sui media, che sono un capolavoro di democrazia e che l’Italia d o v r e b b e prendere a modello, per non parlare dell’Uruguay il cui presidente della Repubblica, José Mujica, è un ex guerrigliero dei Tupamaros, così come la presidente del Brasile Dilma Rousseff è stata una guerrigliera metropolitana che ha conosciuto il carcere e la tortura, tutti combattenti per la libertà dei loro paesi. Non piace a certa stampa italiana, vedi Pierluigi Battista del Corriere della Sera, che Chavez abbia superato quattordici consultazioni elettorali, cosa significa questo, se non democrazia? Questi sono dati, il Brasile è riuscito a lanciare nel 2003 il piano denominato “Fame zero”, l’obiettivo, raggiunto quasi del tutto, ha sconfitto la povertà estrema di quarantasei milioni di brasiliani, non si tratta di assistenzialismo, sottolinea, ma di volontà politica per consolidare dei diritti. Parlando di salute e di istruzione non si può non fare riferimento a Cuba che offre salute e istruzione a tutti i paesi latinoamericani privi di tali servizi, la Scuola di Medicina è una vera eccellenza che offre la possibilità di studiare e di avere qualche opportunità ai giovani poveri del Sud A m e r i c a sono ormai settantamila i medici formati a Cuba. Le altre eccellenze cubane descritte nel documentario di Minà sono la scuola di cinema dove insegna il premio Nobel per la letteratura Gabriel García Màrquez, tenendo lezioni di scrittura creativa ogni anno a maggio e a dicembre, così tanti giovani possono beneficiare del suo talento, pur se privi di mezzi economici.
Stesso discorso per la Scuola di Balletto della grande Alicia Alonso, Ballet Nacional de Cuba, voluta da Fidel per premiare i talenti privi di mezzi. Riflette Minà, e non possiamo che condividere le sue parole, su quanto si sia alzato nei paesi dell’America Latina il livello dei diritti conquistati, mentre in Europa perdiamo i diritti fondamentali dei lavoratori e degli esseri umani, in America Latina finalmente li conquistano! Paco Ignacio Taibo II, afferma Minà, come quasi tutti gli scrittori latinoamericani è un militante, non si chiude in una torre d’avorio, come succede in Occidente, scende in strada, come Sepulveda e tanti altri, a manifestare, mentre quel che si è perso in Italia è la solidarietà tra la gente; il segreto della sopravvivenza di Cuba, ad esempio, è proprio questo, un paese così pieno di cose discutibili, di errori, ma che ha smentito tutto quello che è stato scritto in quaranta anni sulla sua durata, è ancora lì, mentre il comunismo è fallito, il neoliberismo sta crollando, il capitalismo clamorosamente è uscito sconfitto e non sarà certo il Fondo Monetario, che dove è intervenuto ha distrutto le nazioni, a risollevare le sorti dei paesi schiacciati dalla crisi. Paco Ignacio Taibo II ha scritto un libro che demistifica “Alamo”, il cinema ci ha trasmesso un’immagine e uno svolgimento della battaglia di Alamo che rappresenta l’orgoglio americano, egli ritiene che le cose siano andate diversamente e se ne è occupato da storico quale è, mantenendo vivo lo stile narrativo, una storia terribile, lui dice di essersene reso conto quando ha compreso che i latinoamericani avevano le informazioni su Fort Alamo 1836, un fortino nella zona di S. Antonio, soltanto da Hollywood, quindi era necessario scrivere un libro che ristabilisse che cosa era veramente successo, non soltanto nella battaglia di Fort Alamo, ma anche in Texas in generale.
Quali eroi hanno combattuto per la libertà? Non c’è stata l’incredibile resistenza eroica all’interno del fortino, la battaglia è durata soltanto un’ora e mezza e il fine non era la lotta per la libertà, ma la schiavitù e la speculazione delle terre, sono tutte menzogne, laddove lo scopo è arrivare primi per conquistare qualcosa e poi ripartire, lì di eroismo non ce n’è mai! Ma la sua non è un’operazione revisionista perché, anche riguardo ai messicani, non tutto quel che si è detto è vero, egli non li pone dalla parte dell’eroismo, dalla parte della ragione, il tutto si rivela un pasticcio da avanspettacolo, tragicamente divertente nell’umanità spicciola che viene fuori. Mostra, invece, una storia spaventosa di generali dell’esercito messicano che comprano il cibo per poi rivenderlo alla truppa, generali che vendono i cavalli e costringono un intero battaglione di cavalleria a camminare per quattromila chilometri! Noi lo sappiamo benissimo, dice, il romanzo è la storia, la storia è il romanzo, ci sono molti modi per raccontare la storia, confrontare dei dati, analizzarli, però, è anche arte narrativa.