Antonio Ingroia, dal 2009 procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Palermo, titolare dell’indagine sulla trattativa tra Stato e mafia, che tanto continua a far discutere, in partenza per il Guatemala su incarico Onu, dove per un anno dirigerà un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico, prolungando, così, oltreoceano la battaglia indefessa al crimine, non si risparmia in termini di spiegazioni, precisazioni, appelli alla cittadinanza affinché partecipi sempre e comunque alla ricerca della verità, sollecitando quel rinnovamento etico e civile della società italiana necessario per il cambiamento.
Molto presente a pubblici dibattiti, il cinquantatreenne giudice palermitano, che Borsellino volle nell’87 al suo fianco nel pool antimafia costituito con Giovanni Falcone, non è certo il solo a nutrire dubbi legittimi di opportunità circa il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale presso la Consulta, in merito alle intercettazioni delle telefonate intercorse tra l’ex ministro Nicola Mancino, indagato, e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La questione “legalità” e la questione “verità” devono camminare insieme, ha più volte sottolineato Ingroia, perché noi potremo innalzare il tasso di legalità quando riusciremo ad affrontare i temi oscuri e i buchi neri della storia del nostro paese, che sono lo stragismo mafioso e non solo mafioso dei poteri criminali che hanno condizionato la storia italiana. I depistaggi che hanno impedito alla verità di venire fuori su questo stragismo non sono casuali, derivano dall’obiettivo specifico di coprire lo scandalo della relazione permanente fra poteri criminali e classi dirigenti del nostro paese.
Noi, sostiene il giudice, abbiamo organizzazioni criminali che hanno alle spalle una storia secolare e ne hanno fatto un sistema di potere criminale che si atteggia oggi a un sistema di potere economico criminale che ha condizionato per decenni la storia politica ed economica del nostro paese e che ne innerva così profondamente l’economia al punto che, se noi non ce ne rendiamo conto e non mettiamo mano a rimedi anche drastici, sarà impossibile separare l’economia criminale dall’economia legale, finendo la prima per divorare la seconda e non ne resterà più nulla. Il livello così ampio e diffuso della corruzione nel nostro paese, dice, non è più soltanto un problema di questione morale dentro il ceto politico della nostra classe dirigente, ma è un problema sistemico che ha a che fare con una relazione di integrazione fra i poteri criminali e le classi dirigenti italiane.
Questa è la vera questione di democrazia del nostro paese perché senza riuscire a liberarci dal condizionamento dei poteri criminali e senza riuscire a conquistare la verità sugli snodi della storia italiana, che spesso purtroppo sono snodi tragici di stragismo e di giustizia e verità negate, se noi non riusciamo a incidere questi bubboni, se non riusciamo a recidere questo legame, noi, afferma Ingroia, non riusciremo a fare crescere la nostra democrazia perché non riusciremo a liberare l’economia dal condizionamento dell’economia criminale, non riusciremo a liberare i poteri legittimi, quale è il potere politico, dal condizionamento dei poteri criminali, non riusciremo quindi a restituire diritti pieni ai nostri cittadini perché l’Italia rimarrà sempre un paese schiavo dei poteri criminali. Antonio Ingroia si dichiara moderatamente ottimista, non del tutto rispetto agli sbocchi e al futuro, ma solo se si guarda indietro, considerando l’interminabile sequenza di menzogne di Stato, di giustizia dimezzata, di compromissione di ogni articolazione istituzionale con i poteri criminali dei quali anche la magistratura è stata sottolinea lungo ampiamente e storicamente complice. Per decenni, infatti, la magistratura, ammonisce, è stata una componente di questo sistema che garantiva il mantenimento dello “status quo”, che garantiva questa condizione di convivenza permanente con i poteri criminali che ha significato garanzia di impunità per i mafiosi e per i complici dei mafiosi e questo riguarda certo epoche l o n t a n e , storiquando i procuratori della Repubblica di Palermo dimenticavano perfino di pronunciare la parola mafia nei discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario!
Ma riguarda anche anni non lontanissimi, parliamo, ricorda, di trenta anni fa, i tempi, appunto, di Falcone e Borsellino, uomini isolati dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo; erano i tempi in cui c’era quel presidente della Corte d’Appello, non importa neanche il nome, dice, perché poi i nomi passano, ma si perpetuano i sistemi, che cercava di convincere Rocco Chinnici, il diretto superiore di Falcone, di caricare il giudice di “processetti” perché Falcone costituiva una minaccia per l’economia siciliana e quel presidente di Corte d’Appello in realtà non era un corrotto, era sinceramente convinto di ciò e, da un certo punto di vista, non aveva neanche torto perché l’economia siciliana di quel tempo era quasi esclusivamente economia criminale, economia mafiosa, fortemente condizionata dai potenti del tempo, come i cugini Nino e Ignazio Salvo o i cavalieri del lavoro di Catania ed era proprio su quel livello che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prima del pool, avevano iniziato.
Quel pool antimafia è stato strozzato, ribadisce Ingroia, si è fatto lo sforzo titanico del maxi processo e, fintantoché si trattava di questo, tutto bene, visto che riguardava quasi esclusivamente la componente militare, i guai vennero dopo, quando quel pool provò a salire il gradino successivo, appunto il livello degli affari dei cugini Salvo, il rapporto con la politica dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e così via, a quel punto si scatenò una campagna politico-mediatica
contro di loro, poi altre istituzioni con la complicità della magistratura finirono per spazzarli via. Noi abbiamo oggi, asserisce il giudice, un pezzo cospicuo della classe dirigente, dal quale alcune parti delle istituzioni sono riuscite tirarsi fuori, la magistratura in questo senso ne costituisce un esempio, rimasto ancorato a quella stessa politica, la politica che, rispetto ai poteri criminali, è la politica di contenimento dei momenti di emergenza criminale, che sono i momenti di pericolo per l’ordine pubblico, o addirittura di minaccia per la stessa classe dirigente, e la politica di convivenza quando la mafia adotta strategie di tregua e strategie prevalentemente economico-affaristiche.
Noi, però, dice, su questa politica di convivenza, per cui quando si è in momenti di tregua la magistratura deve fare passi indietro, non possiamo starci, al riguardo, senza entrare nel merito di indagini e di procedimenti in corso, temo, dice, che quella sorta di fastidio, per non dire ostilità, ma certamente non simpatia, con cui vengono accolte iniziative giudiziarie doverose come quelle della Procura di Palermo sull’indagine della cosiddetta “trattativa,” sia sintomo ancora di questo approccio, in alcuni casi apertamente rivendicato, come quando l’ex presidente del Consiglio Berlusconi, un paio di anni fa, disse che i magistrati che si occupavano della stagione dello stragismo degli anni Novanta, della “trattativa,” sprecavano il denaro pubblico, occupandosi di fatti vecchi che non interessavano più nessuno. Oppure vengono affrontate in modo meno grossolano, ma con analogo fastidio, come quando, ammette, da qualcuno viene detto che le nostre indagini o alcuni provvedimenti di intercettazione, perfettamente legittimi e autorizzati, sarebbero, si, forse
leciti, bontà loro, consentiti dalla legge, ma inopportuni. L’indagine della Procura di Palermo sulla “trattativa” sarebbe inopportuna: “Io vorrei che qualcuno mi spiegasse, dichiara appassionato e lucido, per quale motivo questa indagine sarebbe inopportuna, cosa c’entra il criterio dell’opportunità con il dovere di indagare rispetto ad una stagione ancora buia della nostra storia, la stagione che allunga l’ombra fino ai nostri anni, che ha mostrato in modo evidente come la cosiddetta seconda Repubblica sia nata sull’onda di quel bagno di sangue di quei due anni fra il ’92 e il ’93 e ancora non c’è una giustizia per quei morti e i loro familiari”!
Ingroia si dichiara convinto che il paese la verità su quella stagione la voglia conoscere, una democrazia non può ritenersi vera senza verità, pertanto ciascuno dovrebbe fare la sua parte, la magistratura ha dei compiti limitati, accerta fatti di reato circoscritti, per quelli noi, sostiene, stavamo procedendo e fintantoché non ci sarà un divieto imposto dalla prescrizione, noi abbiamo l’obbligo di cercare la verità e di verificare eventuali responsabilità penali per quei fatti. Procediamo, afferma, per fatti di reato molto specifici e non generici, né fumosi, né costruendo cosiddetti teoremi, né pretendendo di supplire ad altri nella ricostruzione della verità storica e politica, la magistratura può soltanto accertare la verità giudiziaria e processuale e sarebbe già tanto, visto che su questo fatto si sono accertate addirittura verità false, in parte costruite a tavolino, come il noto depistaggio proprio sulla strage di via D’Amelio, sul quale sta indagando in particolare la Procura di Caltanissetta. Non esita, Antonio Ingroia, ad affiancare la parola “scandaloso” al fatto che nessuna Commissione d’inchiesta in Italia sia mai stata costituita in vent’anni su questa stagione e altrettanto scandaloso che in vent’anni nessuna Commissione parlamentare antimafia, con presidenti di Commissione di estrazione politica diversa e con maggioranze parlamentari diverse, abbia mai messo al centro dei propri lavori quella stagione, come se fosse una stagione da dimenticare, da rimuovere, da non affrontare, come se, continua il magistrato, non ci fosse materia per l’accertamento di verità storico-politiche. Toccherebbe alla politica accertare eventuali responsabilità politiche, visto che da anni ci sono sentenze definitive, non teoremi di una Procura o di un’altra, sentenze definitive che dicono che una trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia vi fu e che, per effetto di quella “trattativa”, al di là delle intenzioni più o meno nobili per cui si è iniziata, le stragi, invece di essere fermate, furono accelerate perché la mafia si convinse che evidentemente pagava quel sistema di uccidere per avere in cambio qualcuno dello Stato che, come dicevano i mafiosi, si faceva sotto per trattare con la mafia eventuali benefici e favori. Tutto questo, aggiunge Ingroia, era scritto nelle sentenze definitive che per anni sono state ignorate, alla fine, per effetto di una serie di coincidenze fortunate, la collaborazione di questo nuovo pentito, Spatuzza che ha consentito di scoprire il depistaggio sulla strage di via D’Amelio, le dichiarazioni, in parte riscontrate e in parte rivelatesi non veritiere, del figlio di Vito Ciancimino, tutto questo ha innestato il processo compreso nel recupero di memoria di vari uomini delle istituzioni, in prima linea negli anni Novanta, che hanno ricordato fatti importanti avvenuti a quel tempo, creando i presupposti perché la magistratura tornasse ad occuparsene.
Finalmente una Commissione parlamentare antimafia, la Commissione Pisanu, attualmente al lavoro, ha messo al centro dei propri lavori la questione delle stragi e della “trattativa”, c’è da augurarsi, conclude il giudice, che questa Commissione chiuda i suoi lavori in fretta