Era il trenta aprile del 1982, le nove del mattino, a Palermo, nei pressi della centrale via Turba, Pio La Torre, deputato del partito comunista, viene colpito a morte a bordo della Fiat 132, accanto al suo autista Rosario Di Salvo, dieci colpi che in pochi istanti spazzano via la vita di questi uomini, sparati da killer a bordo di motociclette, protetti da caschi che ne occultano il volto. A volere morto La Torre furono i personaggi apicali della mafia palermitana, Riina, Provenzano, Pippo Calò, Antonio Geraci e Bernardo Brusca, così raccontò agli inquirenti, scegliendo di collaborare con la giustizia, Salvatore Cucuzza, uno dei boss che, insieme a Nino Madonia, Pino Greco e Giuseppe Lucchese, sparò contro La Torre e il suo autista. Un ulteriore contributo ad una lettura attenta e ricostruttiva di questo crimine, volto a fare luce sulle reali motivazioni, le occulte ragioni alla base dell’omicidio, le cui molteplici implicazioni difficilmente possono essere negate, viene da un libro, edito da Castelvecchi, che è alla seconda ristampa, Chi ha ucciso Pio La Torre? Gli autori, Armando Sorrentino e Paolo Mondani, avvocato di parte civile al processo l’uno, giornalista di inchieste per Report l’altro, si interrogano, in merito alla natura del crimine, se di origine mafiosa o politica o entrambe, ripercorrendo la vicenda attraverso gli atti giudiziari, la sentenza e, ancor prima, rileggendo le relazioni parlamentari di La Torre nella Commissione Antimafia.
L’impegno e lo zelo, riversati in questo importante contributo editoriale alla ricerca della verità, hanno consentito oggi la riapertura del processo, a tre decenni dall’accaduto, con una sentenza, che ha fatto seguito ad un processo lunghissimo, preceduto da indagini incerte e tortuose, una sentenza, appunto, che non sembra avere raggiunto il cuore del problema, la conoscenza dei veri mandanti, abbandonando quella visione di comodo che, attraverso la parola mafia, pretende di spiegare tutto, mentre, invece, nulla chiarisce sulle reali dinamiche interne al fenomeno criminoso.
Ricorda Sorrentino come fosse quello un periodo, dal ’78 all’83 in Italia e in Sicilia dal ’79 all’83, di cambiamento degli assetti del nostro paese, c’era stato l’omicidio di Aldo Moro nel marzo del ’78, che aveva rappresentato una sorta di spartiacque, un prima e un dopo, l’anno successivo in Sicilia verrà inaugurato il triste rituale di morti eccellenti, a partire dall’omicidio del giornalista di Il Giornale di Sicilia Mario Francese, autore di inchieste sugli affari corleonesi, subito dopo è la volta di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, epigono di Aldo Moro nell’apertura a sinistra; sempre nel marzo del ’78 a cadere sarà il giudice Cesare Terranova, deputato del Pci per due legislature, a cui si deve l’arresto nel ’74 a Milano del boss corleonese Luciano Liggio.
Anche Piersanti Mattarella, ex presidente della Regione siciliana, altra vittima illustre, venne colpito per punire la sua apertura al partito comunista. La Torre, scrive Sorrentino, si interrogò sul perché di questi omicidi eccellenti, che venivano indagati separatamente, di ciò accusando magistrati e inquirenti, incapaci di scorgere il filo sottile che li univa. Pio La Torre era siciliano, aveva vissuto la stagione delle lotte contadine del dopoguerra, era nato nel ’27, sulla strage di Portella della Ginestra e di Salvatore Giuliano, aveva lucidamente compreso che non poteva trattarsi di responsabilità da far risalire alla cosiddetta mafia, percepiva la strumentalizzazione che di questa veniva fatta, per coprire i veri mandanti, a cui la politica raramente è estranea.
Sorrentino ci tiene a sottolineare l’attualità di queste problematiche, se noi pensiamo, dice, se riflettiamo che non è bello
che gli alleati, sbarcati in Sicilia per liberarla, avessero fatto affidamento sulla mafia, e non è detto che non avessero avuto delle intese precedenti allo sbarco. Quando pare ormai, ma da tempo, da vari lustri, accertato storicamente, documentalmente, anche per gli atti secretati negli Stati Uniti, che non solo ci furono rapporti, ma che si costruirono intese ben precise prima dello sbarco e dopo lo sbarco, con la nomina, ad esempio, di decine di sindaci di Comuni siciliani mafiosi.
Se facciamo un parallelo con la vicenda di questi giorni sulla trattativa, salta subito agli occhi il carattere di attualità di tutta la vicenda La Torre, che aveva intuito il livello di intese sotterranee alla base dei rapporti mafia/politica.
Dobbiamo, dice Sorrentino, vincere la tendenza naturale a dimenticare e mantenere desto il ricordo di quel che avvenne in Sicilia dal ’79 all’83, quando è stata decapitata un’intera classe dirigente, interprete di un cambiamento nella società siciliana, il presidente della Regione; il capo dell’opposizione; il capo della squadra mobile; il capo dell’ufficio Istruzione; il Procuratore capo della Repubblica; il vice comandante dei carabinieri. Credo, afferma Sorrentino che si sia voluto mettere un’ipoteca molto robusta, drammatica, sulla sinistra del nostro paese perché di lì a poco cambia tutto, di lì a poco muore anche Enrico Berlinguer che aveva voluto fortemente che La Torre tornasse in Sicilia, quasi con un mandato che credo, afferma Sorrentino, pochi nel direttivo del partito gli avessero conferito, per via di quelle posizioni “estremiste e diverse,” la lotta per la pace, la lotta contro l’installazione dei missili a Comiso. Morto La Torre, Berlinguer non solo prosegue la lotta di quella stagione eccezionale sulla via di Comiso, ma forse ne fa uno dei capisaldi dell’ultima fase della sua vita umana e politica. Sorrentino ritiene che La Torre, anche sul piano dello stretto linguaggio, il linguaggio è sempre una scelta politica, segni un passaggio di fase nell’analisi della mafia, che ancora non si poteva definire Cosa Nostra perché la definizione è successiva alla collaborazione di Buscetta dall’84 in poi. La Torre nei suoi interventi scritti, nei suoi dibattiti non parla mai di mafia, preferisce chiamarla “sistema di potere mafioso,” qualcosa che non si può definire un fenomeno, che esiste temporalmente ed ha una durata piuttosto rapida, è, invece, una condizione abituale e costante. Non esitò a parlare, La Torre, di “tribunale internazionale della mafia” di questo “sistema di potere,” per i grandi omicidi di Palermo che hanno volto come etimo, come radice, nella calata di Sindona in Sicilia. Egli non ebbe timore di richiamare le connessioni tra la mafia siciliana e quella italo americana, con la presenza di una certa massoneria, non gli sfuggiva il contesto internazionale nella sua analisi, nella sua proposta politica, ad un certo punto mette la classe politica dell’epoca dinanzi alle proprie responsabilità, richiamando la necessità di voltare pagina, lo dice anche all’interno del suo partito, nel momento in cui fa ritorno in Sicilia durante una fase politica caratterizzata dal consociativismo, frutto di un compromesso, dirà Natta, non storico, ma un compromesso tout court.
Pio La Torre rompe questo modo di fare politica, questa idea politica, rompe equilibri, quindi diventa un soggetto assolutamente scomodo, parla del liberismo selvaggio come di una cancrena, di accumulazione di ricchezza attraverso azioni violente, terreno di cultura del sistema di potere mafioso.
Per lui la morale non era distinta dalla politica, una sorta di ritorno a Machiavelli, a quel Principe, richiamato troppe volte a sproposito negli ultimi decenni, mentre l’accostamento con La Torre sottolinea la sua intransigenza morale. Paolo Mondani, coautore del libro, ha ricordato la relazione di minoranza alla Commissione antimafia, nel 1976, letta da Pio La Torre, una relazione che è il primo atto parlamentare della storia, nella quale un parlamentare scrive, per nome e cognome, chi sono i politici che appoggiano la mafia, il maggiore, scrive è Ciancimino, uomini del quale sono saliti al nord a fare affari e poi li ritroveremo con Marcello e Alberto Dell’Utri, molti anni dopo.
L’attualità di La Torre possiamo leggerla facendo riferimento alla cosiddetta “Trattativa, “ era uno di quegli uomini che riuscì ad intuire questo livello, queta sorta di camera di compensazione dove lo Stato, in molte sue parti, si incontra con la mafia. La Torre viene seguito dai servizi segreti fin dal 1951, si inventarono, per giustificare l’atto illegittimo, che era probabilmente una spia sovietica, lo inseriscono in una lista da cui poi verrà depennato, entrando in una nuova, viene pedinato sino a pochi giorni prima dell’omicidio, configurato da molti come la risposta alla legge da lui voluta sulla confisca dei beni alle mafie, entrata in vigore, però, dopo la sua morte.
Altro contributo legislativo importante è stato quello della norma che istituisce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, con la quale egli intendeva davvero contrastare il “sistema di potere mafioso”, per questa e mille altre ragioni la sua attività politica era oggetto di spionaggio e di pedinamento da parte dei servizi segreti, del resto questa pratica, illegale se attuata nei confronti di deputati, era rivolta a tutta la politica comunista dal dopoguerra, e non fu sempre necessario trovare una scusa per porla in essere.
Giuseppe Cascini, sostituto procuratore a Roma, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati, per il quale tutti quelli che si occupano di economia hanno bisogno della politica e ciò crea questa strettissima connessione tra mafia, imprenditoria e politica, ha ribadito che le organizzazioni mafiose hanno il monopolio del traffico degli stupefacenti, in Italia e nel mondo, non c’è nessun altra attività produttiva che ha un così alto livello di profitto e questi enormi profitti sono reinvestiti in tutte le attività economiche. La difficoltà di oggi nell’affrontare la mafia e i suoi risvolti drammatici, è la testimonianza di un paese che non riesce a fare i conti seriamente con il suo passato e dunque è un paese che non ha futuro.