Proprio il caso di dire che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Alfred Nobel per “pulirsi” un po’ la coscienza dopo i guai combinati con la sua invenzione (la dinamite), istituisce il “Nobel Peace Prize”; ma certamente non avrà immaginato quello che è poi accaduto.
Il “Nobel Peace Prize” è istituito nel suo testamento, nel 1895; e assegnato per la prima volta nel 1901: al fondatore della Croce Rossa, l’imprenditore e filantropo svizzero Jean H. Dunant. A differenza degli altri, viene assegnato non in Svezia, ma a Oslo, in Norvegia. All’epoca le due nazioni erano ancora unite. Il vincitore del premio viene scelto da un apposito Comitato: cinque persone scelte dal Parlamento norvegese. La consegna avviene presso il municipio di Oslo; è l’unico premio Nobel che può essere assegnato non solo a singole persone, ma anche a organizzazioni. Quasi sempre sono personaggi che si sono distinti nell’azione umanitaria, nella lotta all’oppressione politica o nella difesa dei diritti umani e civili. Per fare alcuni nomi: Albert Schweitzer, Martin Luther King, il Dalai Lama, Nelson Mandela… In alcuni casi la scelta ha sollevato perplessità: si potrebbero citare i casi di Theodore Roosevelt, di Yasser Arafat e Menachem Begin, di Henry Kissinger: certamente hanno svolto anche azione di pace, ma è discutibile che della pace possano essere considerati campioni. Discussa anche Aung San Suu Kyi, Nobel 1991, tuttora perseguitata dai militari del Myanmar (ex Birmania), per molti colpevolmente inerte e silenziosa di fronte alla vera e propria pulizia etnica di cui sono vittime i Rohingya.

Un caso clamoroso è quello dell’etiope Abiy Ahmed premio Nobel per la pace 2019 e a capo del “governo” (si fa per dire) di quello sventurato paese che si chiama Etiopia. Nel novembre 2020 Ahmed manda l’esercito nella regione del Tigrai: è la risposta a un attacco dei ribelli a una base militare. Mossa malaccorta: la sperata spedizione punitiva si trasforma in una sanguinosa rivolta generale; la regione del Tigrai precipita in una spaventosa carestia che aggrava ulteriormente il tragico bilancio di un conflitto sanguinoso e crudele. Nessuno si azzarda a calcolare quante vittime possa aver provocato questa ennesima guerra “dimenticata”.
Comunque, parafrasando il celebre film di Alberto Sordi, “finché c’è guerra, c’è speranza”. Di fare affari. Tanti, lucrosi affari. Dall’inizio di quest’anno gli analisti più accreditati calcolano che il premio Nobel per la pace abbia “investito” almeno un miliardo di dollari per procurarsi sistemi d’arma sempre più sofisticati e letali; per quello che riguarda l’intero conflitto, a parte il costo di vite umane, si calcola che sia costata qualcosa come tre miliardi di dollari. Tra i principali fornitori militari del premio Nobel per la pace la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan: allarga in questo modo la sua influenza sulla regione: negli ultimi tre anni l’interscambio commerciale turco-etiopico è balzato da 200 a 650 milioni di dollari. Non solo la Turchia. Il primo investitore straniero in Etiopia è, neppure a dirlo, la Cina di Xi: prestiti per almeno 6,5 miliardi di dollari, il 23 per cento del debito pubblico etiope, stimato in 27,8 miliardi di dollari; il volume annuo di commercio con Pechino supera i 2,5 miliardi di dollari. Anche gli Emirati Arabi Uniti fanno la loro parte: è un continuo via vai di aerei cargo carichi di armi da Abu Dhabi e Dubai. Della partita fa parte anche l’Iran, più defilato, ma non per questo meno consistente.
A questo punto, come non suggerire una modifica al regolamento per l’assegnamento del premio Nobel per la pace? Che sia attribuito a personalità decedute: alla memoria; e dopo aver lasciato trascorrere un buon numero di anni dal decesso. Si eviterebbero così, abbagli e “sorprese” del “dopo”.