La soluzione della crisi politica aperta con le dimissioni di Conte dopo le manovre di Matteo Renzi avviene in tempi tutto sommato rapidi. Non era affatto prevedibile per le reazioni inziali e l’incertezza sui numeri. Invece incassa adesioni totalizzanti, quasi imbarazzanti per entità e soprattutto natura. Non importa se di gente convinta fin dal primo momento oppure diventata tale in corso d’opera, e rapidamente convertitasi per opportunismo di fronte allo spettro delle elezioni anticipate.
La nebulosa degli avversari ideologici (5 Stelle) ai governi tecnici e di quelli politici (la destra di Berlusconi e Salvini) si è dissolta d’incanto lasciando splendere il sole di stagione, così aprendo la porta ad un governo che vorrebbe essere di unità nazionale e potrebbe risultare un’ammucchiata. Sono bastati i pronunciamenti europeisti del cavaliere, i cambi di passo repentini della Lega, la pantomima delle votazioni dei pochi intimi del movimento 5 Stelle dopo che il capo aveva espresso il suo verbo e dato la dritta.
L’arrivo, sulla poltrona di Palazzo Chigi, di Mario Draghi, l’uomo venuto da lontano è certamente accolto dall’apprezzamento dei più mentre le riserve sono più contenute, ma, nonostante il tempo trascorso, non si è dissipato quel senso iniziale di stupore suscitato nel mondo politico dalla decisione del presidente Mattarella di ricorrere proprio a lui in un momento tanto drammatico.
Una sorpresa che induceva a pensare: ora che si fa? Si va tutti a casa, cosa rimane della politica? Quelle perplessità rimangono importanti anche con il varo del governo.
Dopo il primo momento, molte cose sono cambiate, ci si è abituati, è stata presa qualche misura conoscendo il soggetto, e sentendolo parlare direttamente dopo che per vederlo serviva lo schermo. E non è bastato nemmeno questo, anzi è arrivato l’eccesso. Tutti con poche eccezioni a salire sul carro del nuovo venuto, rilasciando – oltre a Berlusconi, i più lontani come 5Stelle e la Lega – dichiarazioni di verginità europeista e tecnocratica. Spudoratamente, con il disincanto che meritano le conversioni radicali, ma sincere. Se lo fossero davvero. Ma andiamo per ordine, il percorso è istruttivo.
In fondo, c’è sempre stato scetticismo su questa eventualità, nonostante il nome fosse costantemente evocato, a ragione o a torto. Una promessa salvifica, per parecchi; più raramente, una vera iattura da scongiurare per gli irriducibili populisti antisistema e anticasta. In questa oscillazione, rimaneva però la sensazione che fosse una sorta di ultima spiaggia, il salvatore capace al momento giusto di tirar fuori il paese dalle secche in cui si era cacciato, l’ultima carta da giocare quando si fossero tentate tutte. Ma non proprio così imminente, c’erano ancora dei margini.
La prima reazione dunque è stata di incredulità, mascherata con obiezioni di principio come se il dissenso fosse politico, profondo (no al dominio delle banche, per carità nessun governo tecnico, la politica innanzi tutto, altrimenti dove va a finire la democrazia?). E poi il “non detto”, l’argomento decisivo: le elezioni anticipate proprio no, non scherziamo, specie ora che con la riduzione dei seggi, a tornare lì, saranno davvero in pochi. I primi conti erano poco rassicuranti: era un governo difficile, con numeri scarsi, e tanta diffidenza intorno.
Anche in questa situazione la vecchia politica aveva delle cartucce da sparare. Era complicato ma si poteva rimediare ai colpi sconsiderati di Matteo Renzi, che aveva fatto cadere il governo sul più bello, quando si dovevano programmare spese e organizzare vaccinazioni di massa. La fantasia avrebbe aiutato a trovare la quadra, rabberciare una soluzione, rabberciare dei responsabili che certo se la tiravano, facevano i preziosi, ma non potevano correre il rischio, per delle bizze, di andare a casa. Era proprio impossibile il Conte ter?
Prima che l’arrivo di Draghi, a sorprendere è stato il tono usato da Mattarella per dare l’annuncio. Il cambio di passo è stato presentato senza enfasi, con la gravità delle pagine tragiche della storia, in modo accorato ma fermo e senza prevedere alternative. In caso contrario, se non si fosse percorsa questa strada, non il rischio ma la certezza che il paese andasse a carte quarantotto sotto i fendenti del contagio ancora senza controllo e la pressione della crisi economica.
Un richiamo anche alla serietà oltre che alla gravità del momento. E’ finita la ricreazione, ragazzi, ora si fa sul serio. Voi che vi siete trastullati con giochetti inutili mentre tutto traballava, che avete aperto una crisi incomprensibile ed inopportuna, che non avete saputo chiuderla, mentre crescono i morti e i disoccupati, andate a posto, anzi mettetevi di lato. Il tempo ve l’avevamo concesso ma non ne avete fatto buon uso. La mano torna ora ai grandi.
Si è formato un coro, con scarsi distinguo, di maniera, tanto dire: guardate non è un’ammucchiata, ne siamo davvero convinti. Dovremmo aver fatto il callo alle conversioni, ai dietrofront, alle folgorazioni sulle tante “via di Damasco” su cui affacciano i palazzi del potere, alle capriole pirotecniche. L’Europa affamatrice dei popoli ed espressione somma della casta elitaria, la finanza strangolatrice dell’economia nazionale. Anzi no, che abbiamo detto sinora, via al recovery plan, sì al coordinamento continentale. Cose così, affermazioni destinate a cambiare nel volgere di una breve nottata.
Comodità e opportunismo? Difficile dubitarne, anche se non è solo questo. Spendere i 209 miliardi che arriveranno dall’Europa, ragazzi, non è un giochetto che si possa lasciare facilmente ad altri, l’occasione è troppo succulenta, gli insulti e le offese del passato non contano più, sono acqua passata. Sovranisti e populisti di ieri e oggi (dai 5 Stelle alla Lega) possono fare marcia indietro su tante questioni e ritrovarsi insieme. Del resto lo hanno già sperimentato, e non conta ora fare bilanci, tirare le somme, stabilire come andò allora, questa è una pagina nuova.
Il governo che viene è un atto di accusa verso il vuoto in cui annaspa il paese da qualche tempo, quella mancanza di valori, idee, tradizioni, che formano le radici ultime di una collettività. L’insieme di fattori che nello stesso tempo fanno la differenza, segnano gli spartiacque invalicabili, e magari consentono nell’emergenza anche accordi purché nella chiarezza, e con la consapevolezza che si tratti comunque di un minimo comune denominatore, non altro. Come se la diversità di visione sul futuro non esistesse più, annullata nella poltiglia degli interessi di potere.
Nella crisi identitaria dei partiti, nella latitanza delle ragioni fondative della comunità nazionale, il governo di tutti (o di troppi) rischia di essere il governo di nessuno, unito nella volontà di nascere, ma senza la forza per navigare a lungo, soggetto a oscillazioni ed incertezze, appena nuovi problemi si metteranno d’intralcio. Perché dimentico dell’esigenza, in una democrazia liberale rappresentativa, di una chiara alternanza di proposte politiche per il paese.
Eppure si avverte anche, nel paese, e persino – qui timidamente quasi si temesse d’essere inopportuni o di dire cose insensate – un cambiamento di clima intorno all’esperimento Draghi. Probabilmente non sarebbe stato possibile se a monte non fosse mutato un certo vento, non se ne avesse abbastanza della vecchia retorica che ha ammorbato l’aria e fatto tanti danni. L’arrivo di Draghi è in qualche modo, al di là dell’uomo, il ritorno al governo della competenza e dell’esperienza. Lui viene da un altro contesto, ma anche noi abbiamo alle spalle un altro mondo: “uno vale uno”, l’impreparazione della classe politica, l’ignoranza dei ministri nei settori cui sono preposti, le tesi bislacche e infondate in materia economica o istituzionale.
La “stratificazione” è una forma storica di costruzione della società, fondata sul presupposto elementare di affidare i compiti vitali (tutti, non solo quelli più generali) alle persone che sono in grado di svolgerli, e magari a quelli che, a confronto, lo fanno meglio. Non possiamo occuparci di tutto, e non ne siamo capaci, come vorrebbero i cantori dell’interpello tecnologico della gente su ogni questione, offrendo una versione caricaturale della democrazia e mistificante del consenso.
Alla fine, puntare su Draghi (e non solo lui, per carità) ha lo stesso significato elementare di tante altre scelte comuni: rivolgersi ad un meccanico bravo per riparare l’auto, ad un chirurgo esperto per farsi operare, e magari ad un giudice selezionato a dovere e formatosi bene perché decida della nostra libertà. Si può fare diversamente? Per stare all’oggi. È indifferente stabilire a chi ci si rivolga per l’invenzione di un vaccino, l’istruzione scolastica, la formazione professionale, la realizzazione di prodotti innovativi? Eppure l’inganno opposto ha fatto breccia nell’opinione pubblica (e continua a suggestionare) quando si è trattato della più difficile delle questioni: gestire la cosa pubblica.
Nulla capita a caso, c’è una ragione se è accaduto l’impensabile e l’inammissibile. Se hanno preso piede tanti movimenti populisti variamente orientati, se il concetto di élite ha assunto un significato spregevole, non è perché non abbiamo più necessità di medici, scienziati, meccanici e muratori, ma perché è avvenuta una radicale trasformazione antropologica. Le élite, specie quelle politiche, sono diventate simili ad una casta indiana, centri di potere con la missione di autoriprodursi mantenendo prerogative e privilegi, dimentichi dell’interesse della collettività.
Il ricorso (anche) ai tecnici per guidare la cosa pubblica solleva da noi l’eterno e stucchevole dibattito sul rapporto tra la conoscenza scientifica e l’esperienza politica, come se si trattasse di due comparti separati e non occorressero anche competenze reciproche. Il buon politico deve anche saperne della materia di cui si occupa, mentre il tecnico non può essere avulso dal contesto sociale e incapace di mediare con altri interessi. La divaricazione è il frutto della rinuncia alle più qualificate risorse per prendere le più importanti decisioni.
La partita di Mario Draghi è solo all’inizio, non basterà essere riusciti a formare un governo raccogliendo un vasto consenso, perché proprio la vasta partecipazione di forze eterogenee rappresenta la principale insidia. Certo sarà decisivo far tesoro delle competenze accumulate in precedenza, specie nei rapporti con i partners europei, e in molte questioni ciò farà la differenza, ma non basterà. Il nuovo presidente del Consiglio non è un demiurgo, né un salvatore della patria, nessuno può farcela da solo, nemmeno se può contare su menti prestigiose, scelte meglio che in passato.
Non servirà la bacchetta magica. Né è utile. Piuttosto la capacità di mettere le competenze al servizio del dialogo con i cittadini, instaurando nella società e nelle istituzioni un clima di fiducia e collaborazione. Da uno che si tiene alla lontana dai social, che limita le esternazioni allo stretto necessario e solo nelle sedi formali, non ci si potranno attendere twitt folgoranti e post esplosivi. Non ci mancherà più di tanto questa forma di comunicazione, mal utilizzata e dannosa. Il terreno per valutare la capacità di Draghi sarà il suo modo di “fare politica”: la capacità di operare una ricucitura tra il mondo delle competenze e quello della politica tutta, perché questa ora è troppo fragile. Persino inadeguata a sostenere il cambiamento epocale che ci attende.
Su un certo piano, il prossimo presidente del Consiglio Draghi potrebbe rivelarsi anche “miracoloso” però. Per esempio, se riuscisse a svolgere un ruolo di “mallevatore” delle risorse inespresse e nascoste della società, aiutando la politica a liberarsi da pregiudizi, interessi particolari, meschinità, angustie mentali, e tutta quella paccottiglia che costituisce il baratro in cui è precipitata. Troppo forte è il discredito, spesso giustificato, che l’avvolge paralizzandone la funzione.
Servirà, per le persone di buona volontà, non importa se tecnici puri o politici, immaginare le migliori soluzioni amministrative possibili, soprattutto creare un rapporto più fiducioso e profondo tra il potere pubblico e i cittadini. Lo slancio di cui abbiamo bisogno per uscire dall’emergenza deve saper abbinare alla bravura dei più tante altre cose, piccole e grandi: il coinvolgimento nelle scelte, il senso di appartenenza, la fiducia nella possibilità di uscirne, lasciandoci alle spalle le rovine del vecchio e del passato.
AGGIORNAMENTO
Ecco la lista dei ministri presentata da Mario Draghi al presidente Sergio Mattarella (Video)
Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta Federico d’Incà
Innovazione tecnologica e transizione Vittorio Colao Pubblica
Amministrazione Renato Brunetta
Affari regionali e autonomie Mariastella Gelmini
Sud Mara Carfagna
Politiche giovanili Fabiana Dadone
Pari opportunità e famiglia Elena Bonetti
Disabilità Erika Stefani
Turismo Massimo Garavaglia
Affari Esteri e Cooperazione internazionale Luigi Di Maio
Interno Luciana Lamorgese
Giustizia Marta Cartabia
Difesa Lorenzo Guerini
Economia e Finanze Daniele Franco
Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti
Politiche agricole alimentari, forestali Stefano Patuanelli
Transizione Ecologica Roberto Cingolani
Infrastrutture e trasporti Enrico Giovannini
Lavoro e politiche sociali Andrea Orlando
Istruzione Patrizio Bianchi
Università e ricerca Cristina Messa
Cultura Dario Franceschini
Salute Roberto Speranza