È il momento di voltare pagina. Fra poche ore, Joe Biden e Kamala Harris giureranno nell’inauguration day più unico e spettrale che la storia americana ricordi, davanti ad una Washington militarizzata. Mai, a così poco da un passaggio di consegne fra presidenti, l’aria era stata così cupa e densa di avvenimenti nefasti, mai dall’Italia avevamo osservato con apprensione la formalizzazione di un processo elettorale in quella che viene ritenuta la più “solida democrazia del mondo”. Eppure, questo è il sentimento generale che si prova dal Bel Paese: sgomento e spasmodica attesa, nella speranza che tutto fili liscio, come nei momenti che precedono un salto nel buio.
Chiaramente, la crisi di governo che l’Italia sta attraversando, scoppiata a così pochi giorni dall’insediamento della nuova amministrazione democratica, ha bloccato in parte il dibattito su più livelli che aveva investito l’opinione pubblica nazionale dopo l’assalto al Campidoglio dello scorso 6 Gennaio, vissuto con estrema preoccupazione anche sulle sponde mediterranee. Ma l’Italia di oggi, assorta nell’analisi di una crisi che potrebbe paralizzarla, guarda soltanto di sfuggita a ciò che accade a Washington, seppur con apprensione.
Sui giornali nazionali, negli ultimi giorni lo spazio dedicato agli Stati Uniti si è ridotto, lasciando una maggiore centralità alle dinamiche parlamentari da Roma. La stampa ha tentato di dare spiegazioni sulla ratio dell’assalto al Congresso, riuscendoci soltanto in parte e grazie anche a giornalisti come Francesco Costa e Giovanna Pancheri, esperti delle dinamiche statunitensi. La sensazione, però, è che si sia persa l’occasione di fare maggiore chiarezza, proprio perché l’immagine degli USA in Italia è spesso il riflesso dei successi hollywoodiani. Le fonti di informazione si sono spaccate sull’utilizzo della parola “golpe”, sull’intervento dei social media nei confronti di Trump, sulle ragioni socioeconomiche della folla che ha assaltato il Campidoglio. Proprio queste ultime sono state forse banalizzate, nodi nel pettine di una narrazione che in Italia ha spesso mancato di spiegare la radicalizzazione dell’elettorato rurale e dei candidati Repubblicani.
Oggi, ad un giorno dall’inauguration day, è lontana la “speranza” obamiana e la “sorpresa” trumpiana. Non si guarda a Washington con occhi curiosi ma timorosi. L’assalto al Campidoglio ci ha mostrato che eventi così deleteri per la democrazia possono succedere anche negli Stati Uniti e potrebbero accadere nuovamente. Non a caso, molti articoli degli ultimi due giorni si concentrano sulla massiccia militarizzazione della Capitale, segno di un passaggio di consegne travagliato e potenzialmente violento, addirittura con spettri di infiltrazioni estremiste fra le forze armate. Tutto ciò è amplificato dall’assenza di Trump che volerà in Florida. Ma anche la mancanza di una folla giubilante, sostituita suggestivamente da un tappeto di bandiere a stelle e strisce, rappresenta l’ennesima prova di una cerimonia atipica a cui guardare con speranza ma preoccupazione.
La politica, occupata da altre questioni ben più vicine, non ha operato quel processo di abiura dei modi trumpiani che ci saremmo potuti aspettare dopo una condotta così antidemocratica e dolosa da parte del Presidente statunitense. Dopo gli eventi dello scorso 6 Gennaio, dalla maggioranza si è levato un coro di voci contrariate e di denunce, sebbene lo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia preso una posizione troppo tiepida sull’argomento, condannando generiche violenze e senza mai nominare Donald Trump. Pochi giorni dopo si è congratulato con il Presidente eletto per poi affermare di guardare “con grande speranza alla presidenza Biden” soprattutto in prospettiva di un ritorno al multilateralismo. Sulla stessa lunghezza d’onda i leader dell’opposizione come Matteo Salvini e Giorgia Meloni che, dopo aver visto in Trump un modello da seguire ed eguagliare, hanno indirizzato alla folla violenta soltanto delle generiche accuse. Sembra che gli eventi di Capitol Hill non siano stati capiti fino in fondo e siano scivolati sui profili dei nostri politici nazionali. Ma il problema della dialettica violenta e la polarizzazione dell’elettorato, fenomeni che viviamo anche nel Bel Paese, avrebbero meritato un approfondito processo di riflessione che non c’è stato.
Dalla base, i cittadini che più si preoccupano dei fatti d’oltreoceano sono spaccati in due. I trumpisti nostrani non sono scomparsi dopo il 6 gennaio e hanno invece tentato di spiegare gli accadimenti parlando di media collusi e complotti, ripetendo all’infinito il mantra delle elezioni truccate. Ancora, nonostante alcune pagine social di sostegno a Donald Trump siano state bloccate anche in Italia, nei gruppi Telegram, ben lontani da occhi indiscreti, si parla ancora dei piani di Q per l’inaugurazione e si attende il golpe militare, confidando scelleratamente nelle forze armate dispiegate a Washington. Dall’altro lato della barricata, invece, le notizie sui decreti che Biden avrebbe intenzione di emanare nei prossimi giorni, fra cui l’eliminazione del “muslim ban” ed il ritorno degli USA negli Accordi di Parigi sul clima, vengono viste come segnali di un positivo cambio di marcia.
In Italia, forse anche a causa della recente crisi di governo, si respira un’aria incredula, quasi onirica. Per molti, i fatti delle ultime settimane, le violenze, la capitale presidiata ed il clima di incertezza sembrano così distanti da quell’idea di America costruita sulla colonna granitica della democrazia. Vista dall’Italia, l’inaugurazione appare incerta, quasi nebulosa, così poco americana per gli standard a cui siamo stati abituati negli anni in cui folle trepidanti hanno accolto l’insediamento di un nuovo Presidente.