Quando si parla di cose americane, è difficile non imbattersi in Francesco Costa. Infatti la Voce di New York lo aveva sentito già a settembre. Vicedirettore del «Post», è l’ideatore di Da Costa a Costa, un progetto composto da un podcast e una newsletter diventato da tempo un importante riferimento per tutti gli appassionati di politica e società americana, con oltre cinquantamila iscritti e più di due milioni di episodi scaricati e ascoltati.
Dopo aver pubblicato lo scorso anno il suo primo libro, Questa è l’America (Mondadori, 2020), nel quale ha analizzato e raccontato i temi e le questioni più significative della storia e della cultura statunitense, torna ora in libreria con un nuovo lavoro intitolato Una storia americana (Mondadori, 204 pagine, 17 euro), dove racconta la storia personale e politica di Joe Biden e Kamala Harris per comprendere e investigare il percorso che li ha condotti a sconfiggere Donald Trump.
Nel libro si può seguire così la traiettoria unica dell’ex vice di Obama, tra battaglie epocali e tragedie private, oltre che l’intrigante carriera di Harris, con i suoi storici primati. Due vicende significative e non prive di contraddizioni che però, come fa notare Francesco Costa, sono le contraddizioni dell’America stessa.
Abbiamo contattato l’autore per parlare insieme a lui di Una storia americana, oltre che di quello che è successo nelle ultime settimane e succederà nel prossimo futuro.
Trump ha fagocitato ogni discorso sugli Stati Uniti: dalla campagna elettorale alla pandemia, dal voto al post-voto. Vicino a una figura così ingombrante e sopra le righe, chiunque rischia di apparire troppo normale. Il tuo libro sembra quasi un modo per rendere giustizia a due personaggi che invece di normale hanno ben poco. Le storie di Joe Biden e Kamala Harris che tu racconti sono infatti due storie eccezionali.
“È chiaro che la presenza alla Casa Bianca di un personaggio come Trump – così diverso dal passato, l’unico presidente a non avere alcuna precedente esperienza politica o militare, con uno stile e un linguaggio che abbiamo imparato a conoscere – evidentemente abbia schiacciato tutto su di sé. Il suo comportamento nel corso del 2020, penso soprattutto in relazione alla pandemia, ha trasformato queste elezioni in un referendum su di sé, più che in una scelta tra Biden e Trump. Questo però non deve impedirci di guardare al futuro e a un futuro di cui Trump sarà eventualmente un personaggio comprimario, forse nemmeno quello. Perché gli Stati Uniti avranno tra pochi giorni un presidente e una vicepresidente che hanno due carriere e due storie eccezionali e non solo. Nel corso delle loro vite hanno affrontato una serie di problemi e di questioni relativi alla società americana che non sono così distanti da quelle che si troveranno ad affrontare tra poco. Faccio due esempi su tutti. Biden ha gestito in prima persona l’implementazione del Recovery Act nel 2009, il pacchetto di fondi che servì a far ripartire l’economia americana dopo la crisi del 2008. Kamala Harris da procuratrice generale della California ha affrontato direttamente tutte quelle questioni sulla giustizia penale e sulle violenze delle forze dell’ordine che abbiamo visto essere così attuali con le proteste della scorsa estate”.
Infatti nel tuo libro ripercorri la carriera politica di Biden e fai notare come già alla sua prima candidatura nel ’72, e poi in seguito, abbia affrontato battaglie contro la guerra in Vietnam, contro le discriminazioni nei confronti degli afroamericani, contro la violenza sulle donne, contro la violenza della polizia e a favore della protezione dell’ambiente. È l’America che ha gli stessi problemi irrisolti da cinquant’anni o è Biden a esserne sempre stato un interprete puntuale e a tratti pionieristico?
“Secondo me sono entrambe le cose. Se si parla di diseguaglianze economiche, dell’ambiente, delle discriminazioni, sono problemi che sicuramente l’America affronta da moltissimo tempo, e se vuoi è lo stesso anche per tutte le democrazie occidentali, ovviamente ognuna con le sue caratteristiche, peculiarità e differenze. Però la convivenza tra persone diverse o la distribuzione della ricchezza sono temi attuali dappertutto. È vero che Biden è riuscito ad avere una carriera così lunga non tramite il trasformismo o una qualche rendita di posizione, ma tramite la capacità che ha mostrato da subito di intercettare e capire bene l’umore del Paese in cui si è trovato a vivere in un dato momento. Questo gli ha permesso di fare il senatore rieletto per sette mandati, il vicepresidente degli Stati Uniti, di vincere delle primarie in cui a un certo punto non sembrava essere affatto favorito e infine di battere un presidente uscente che, come ci dice la storia, è sempre un’impresa molto complicata. Anche nella fase della transizione, così tesa e nervosa, si è mostrato molto abile nel leggere la situazione, nel non dare per esempio spago alla accuse di Trump sui brogli. Gli altri hanno fatto il lavoro sporco, ma lui si è sempre tenuto fuori da questa contesa. Credo che ci sia un altro aspetto molto interessante da analizzare nel 2020, cioè il ritorno dell’esperienza politica”.
Sia Biden sia Harris sono appunto politici veri, che hanno saputo fare del compromesso una virtù, anche se per noi italiani l’espressione stessa di scendere a compressi abbia una connotazione negativa. Secondo te in una politica e in una società americana così polarizzate, questo modo di fare politica può essere l’arma in più per la presidenza di Biden? C’è cioè ancora spazio per politici che provano a dialogare anziché urlare? Un discorso simile, con le dovute differenze, vale anche per l’Italia, dove i cittadini accettano sempre meno il fatto che la politica sia fatta spesso di sfumature.
“Sono molto d’accordo e penso che proprio per questo motivo la vittoria elettorale di Biden sia una grossa notizia. Ha vinto un politico il cui profilo è molto diverso da quello dei politici di successo contemporanei a cui siamo ormai abituati. Un politico che non ha sempre lo scopo di innescare delle reazioni emotive molto forti, che non divide e che non cerca sempre il conflitto. Abbiamo visto anche in Europa molte leadership costruite invece proprio su questo. È l’elogio non tanto del compromesso, quanto della necessità di muovere e mandare avanti il Paese tutti insieme, facendo degli accordi e ricordandosi che, come si dice, il meglio è il nemico del bene. Compromesso è una parola che di per sé ci fa venire in mente cose brutte o sensazioni negative ma, a forza di rifiutare ogni sorta di compromesso, i problemi dell’America sono rimasti irrisolti da almeno vent’anni, dall’immigrazione alle tasse, al salario minimo, alla sanità, al clima. Quindi non sappiamo come andrà a finire ma credo che Biden vorrà provare a convincere gli americani che far muovere le cose anche di poco sia meglio di niente, che oggi più mai sia necessario che l’America cominci ad aggredire alcune di queste questioni”.
Nel libro scrivi che con Kamala Harris Biden ha «lanciato un ponte verso il futuro». Considerata la sua età e il fatto che sia un uomo e di politico di altri tempi, quasi un esemplare in via di estinzione, lo immagini soprattutto come una specie di presidente “traghettatore”?
“Sì, assolutamente. Biden ha settantotto anni ed è espressione di una classe politica che appartiene al passato. Il grosso della sua carriera è avvenuto nel Novecento e il modo stesso con cui ha affrontato questa campagna elettorale, insieme alla sua età, suggeriscono che lui voglia essere un presidente di transizione e di pacificazione, che chiude un’epoca e ne fa ripartire un’altra, pur sapendo che lui non ne farà parte. Non sappiamo se si ricandiderà o meno tra quattro anni, lo scopriremo. Sappiamo però che quando deciderà di lasciare, tra quattro o otto anni, Kamala Harris sarà sicuramente in prima fila per succedergli. Anche lei dovrà fare le primarie, come tutti, ma è già in un posto di grande responsabilità, con una nota in più. Il fatto che i democratici al Senato abbiano ottenuto cinquanta seggi come i repubblicani, rende Harris l’ago della bilancia. In molte situazioni si troverà a sbloccare il voto da una parte o dall’altra e questi voti saranno decisivi nel far passare o meno certe leggi. Ciò la metterà al centro della scena molto più di quanto accada normalmente con i vicepresidenti, quindi dobbiamo aspettarci da parte sua un protagonismo politico molto forte almeno nei prossimi due anni”.
Biden, che tu nel suo rapporto con Obama definisci come una specie di Obi-Wan Kenobi, ha interpretato il ruolo di vicepresidente in modo molto innovativo, quasi atipico. Pence invece è stato più tradizionale, a tratti ectoplasmatico. Insieme al protagonismo a cui accennavi, cosa dobbiamo e possiamo aspettarci da Harris come vicepresidente, in virtù anche della sua storia personale e politica?
“Oltre al suo ruolo di tie-breaker al Senato, c’è anche un altro fattore da non sottovalutare. I democratici hanno un grande consenso fra i giovani e Biden ha ottenuto molti voti da loro, pur non essendo molto vicino a quel segmento della popolazione. Alle primarie, tra l’altro, i giovani gli avevano preferito altri candidati e alle presidenziali lo hanno votato soprattutto per cacciare Trump. Qual è il ponte che l’amministrazione ha verso i giovani democratici e del Paese? Secondo me è Kamala Harris, che per stile, età, carisma, fascino, coolness è in grado di costruire un rapporto con loro, anche grazie al linguaggio che utilizza, diverso rispetto a quello di Biden. In America i dati dicono che i giovani sono il segmento della popolazione che partecipa di meno alle elezioni, soprattutto a quelle di metà mandato, che per i democratici ha sempre significato prendere delle gran batoste. Kamala Harris sarà preziosa nel provare a dare sostegno all’amministrazione anche attraverso i giovani, specialmente in vista delle elezioni di metà mandato del 2022”.
Rimanendo nel futuro prossimo, probabilmente già nel 2024 avremo Kamala Harris candidata alla presidenza. Come te la immagini da presidente? Oltre a riavvicinare i giovani, pensi sarà in grado di unire le varie anime del Partito Democratico, facendo da chioccia alle nuove generazioni di politici, compresi quelli più a sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez, che con Biden sembra quasi si siano dovuti “tappare il naso”?
“Io non penso che lei possa davvero riunificare le varie anime del Partito Democratico, anche perché i partiti americani sono così grandi che in qualche modo costitutivamente devono avere tante anime e tante correnti diverse. Kamala Harris non è organica alla corrente e ai gruppi che fanno riferimento a Sanders, Ocasio-Cortez e nemmeno a Elizabeth Warren. Quando ci ha provato alle primarie, non ci è riuscita benissimo. Credo però che lei possa puntare a essere riconosciuta come credibile e affidabile da quella parte del partito e questo dipenderà inevitabilmente da quello che farà e da quello che succederà. Tutte le questioni etniche e razziali diventeranno sempre più pressanti per il Partito Democratico nei prossimi anni, perché gli Stati Uniti stanno diventando sempre meno bianchi e abbiamo già avuto una prova di quanto siano diventate forti queste rivendicazioni. C’è poi un’altra variabile. Qualsiasi previsione sul futuro a medio-lungo termine, dal 2024 in poi, va subordinata a come si svolgerà l’uscita dalla pandemia. Se accadrà in modo pulito, con una crisi economica che finisce rapidamente e una ripresa che parte veloce, allora ci potrebbe essere anche un piccolo boom economico, quindi più ottimismo, un umore in generale migliore in America, più opportunità, gente che viaggia e che finalmente torna a uscire fuori. Se la ripartenza e l’uscita dalla crisi dovessero invece essere lente, faticose e dolorose, con la disoccupazione ancora molto alta, non solo tra quattro anni chiunque dovesse candidarsi tra Biden e Harris avrà moltissime difficoltà, ma la sinistra del Partito sicuramente non si schiererà con un candidato o una candidata che dovessero giudicare inadeguato nei prossimi due-tre anni nel far ripartire l’economia e dare più opportunità agli americani”.
Passando all’altro schieramento, l’ultimo capitolo di Una storia americana si apre con i fatti di Charlottesville del 2017. Leggendolo è difficile non ripensare a quanto successo a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio. L’assedio è stato gravissimo e sconvolgente, ma alla luce di quanto racconti sorprende fino a un certo punto, perché da anni Trump sdogana e incoraggia le frange più estremiste e radicalizzate della destra americana. Pur sconfitto di molto alle elezioni, Trump ha comunque ottenuto settanta milioni di voti, molti dei quali proprio da parte di quegli estremisti che hanno tra i venti e i trent’anni. Un’intera generazione molto lontana da Biden. Malgrado tu lo definisca una «anomalia», non credi dunque che Trump possa essere invece un pericoloso precedente e che, dopo di lui, la politica e i politici americani non potranno mai più essere gli stessi?
“Un fatto eccezionale come l’attacco al Congresso e la stessa presidenza di Trump non accadono all’improvviso. Cose così eccezionali succedono perché prima ce ne sono state altre che hanno pian piano creato un contesto tale per cui a un certo punto uno come Trump diventa presidente e avviene ciò che è avvenuto il 6 gennaio. La radicalizzazione degli americani e dei repubblicani in particolare comincia molto prima di Trump, anzi lui ne ha approfittato per diventare presidente. Quindi anche la sua uscita di scena non cambierà da questo punto di vista il panorama. C’è un’America molto incattivita e c’è un Partito Repubblicano che ha una base molto estremista, è un dato con cui si dovrà fare i conti in ogni caso. Al netto di ciò che dicevo prima, cioè se l’economia dovesse ripartire bene, anche le frange più radicali farebbero più difficoltà a trovare il malcontento in cui inevitabilmente prosperano e trovano adepti. Secondo me bisogna anche accettare che il potere che i politici hanno di agire sulla realtà è vasto ma conosce dei limiti. Il problema della radicalizzazione dei ventenni e dei trentenni americani ha molto a che fare per esempio con i social media, con la permanenza di questi ragazzini per dodici-tredici ore al giorno sui forum più oscuri e radicali. Queste sono cose su cui un presidente può agire poco. Ci sono delle tendenze e dei fenomeni delle società che a volte si esauriscono ma che hanno bisogno magari di dieci-venti anni. Biden dovrà farci i conti. Non sono sicuro che lui possa redimere chi oggi è stato rapito da un’ideologia violenta”.
Di questi problemi e aspetti generali così radicati nella società americana hai scritto nel tuo libro precedente, Questa è l’America. In Una storia americana ti sei concentrato invece su Biden e Harris. Hai per caso in serbo un terzo libro per chiudere la trilogia, o magari altri volumi con cui costruire una sorta di saga americana?
“Essendo un giornalista, molto del mio lavoro dipende dai fatti e dall’attualità, quindi chissà cosa succederà e quali saranno le storie che sarà interessante provare a indagare. Non ho progetti già definiti, ma so che mi piacerebbe chiudere questa trilogia sull’America con un altro libro. Credo che a questo punto se ne parlerà alla fine del 2022. C’è una storia che mi piacerebbe raccontare, però richiede che io vada in America, viaggi un po’, faccia delle interviste. Non so quando sarà possibile lavorarci, spero presto, perché vorrà dire che le cose saranno diventate più tranquille. Perciò sì, voglio sicuramente continuare a indagare l’America, teoricamente con un libro che sia diverso dai primi due e che quindi completi il quadro su cosa siano oggi gli Stati Uniti”.
Puoi anche rassicurare i lettori e gli ascoltatori di Da Costa a Costa circa una possibile quinta stagione?
“Non ho deciso di non farlo ripartire, ma non so onestamente quando accadrà, perché quest’anno è stato molto pesante e la fatica è stata tanta. Nel 2022, nel 2023 o nel 2024? Chi lo sa! Da Costa a Costa mi piace molto, sicuramente non voglio abbandonarlo”.