Quando in questi prossimi mesi gli elettori democratici americani dovranno decidere tra il plotone di candidati alle elezioni presidenziali del 2020, chi sarà lo sfidante di Donald Trump, avranno una vasta gamma di scelta non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche e soprattutto qualitativo.
Tra i dettagli dei programmi politici dei ventiquattro aspiranti al titolo attualmente in lizza, si racchiudono anche le molte anime di un Partito Democratico che deve decidere quale sarà la strategia più efficace per detronizzare l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Le scelte sono fondamentalmente due: quella “istituzionalista” che tende cautamente ad occupare il centro dello spettro politico-ideologico, che spera di riportare all’ovile alcuni degli elettori di Obama sedotti nel 2016 dalla demagogia di Trump e che ha ancora in Joe Biden il suo rappresentante principale malgrado il ridimensionamento dall’ex vicepresidente subito durante il primo dibattito elettorale per mano di Kamala Harris .
La seconda corrente è quella “insurrezionalista” che si identifica per lo più con i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, che avanza proposte politiche più radicalmente progressiste e che risulta favorita tra i rappresentanti più giovani e agguerriti della sinistra del partito giunti al Congresso con le ultime elezioni di medio termine.
In un panorama ideologico così divergente come quello attuale, l’ulteriore polarizzazione esistente all’interno del Partito Democratico è ancora più rimarchevole ed è difficile capire se la tradizionale strategia elettorale che spinge i candidati di entrambi i partiti a conquistare il centro dello schieramento politico, sia ancora valida.
L’elezione di Donald Trump in America, l’esperienza di Brexit nel Regno Unito così come quella generale aria di “rivolta contro lo status quo” culminata con l’affermazione populista nelle ultime elezioni europee, suggeriscono che forse sarebbe meglio gettare la cautela alle ortiche e proporre iniziative politiche più coraggiose del tradizionale centrismo liberal-democratico che ha monopolizzato, dal Dopoguerra ad oggi, la scena politica su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Con o senza polarizzazione ideologica tuttavia, le elezioni si vincono strappando elettori allo schieramento avversario, un compito particolarmente arduo negli Stati Uniti dove, già in condizioni normali, i voti individuali hanno un peso specifico molto diverso grazie alla peculiare struttura americana del collegio elettorale in cui gli stati rurali meno popolosi inviano al Senato lo stesso numero di rappresentanti di altri con un numero molto maggiore di abitanti.
A ciò si aggiunge il fatto che, mentre il paese continua ad urlare allo scandalo per le interferenze russe nelle elezioni del 2016, lo sdegno nazionale appare molto più contenuto in relazione al “sabotaggio interno” del processo democratico attuato da almeno un decennio a questa parte dal Partito Repubblicano americano che, attraverso una sistematica campagna di soppressione e manipolazione dei voti e spalleggiato da una Corte Suprema messa assieme a sua immagine e somiglianza grazie a sotterfugi e disprezzo per le regole democratiche continua a perpetrare soprusi che erodono la solidità istituzionale del paese.
Dal momento che il voto presidenziale del 2020 rappresenta un momento di svolta per il futuro democratico degli Stati Uniti (e, vista l’ottusità dell’amministrazione Trump in materia ambientale, forse, nel lungo termine, anche per la sostenibilità ecologica del pianeta) i candidati del Partito Democratico che nel corso della campagna elettorale hanno assunto posizioni più radicalmente progressiste e intransigenti, forse farebbero meglio a rivedere la propria strategia.
E’ importante evidenziare che molte delle proposte caldeggiate dal Partito Democratico riscuotono l’appoggio dell’opinione pubblica americana.
L’eliminazione della retta per le università pubbliche; il problema della diseguaglianza sociale; la creazione di un sistema di assistenza sanitaria che assicuri a tutti una copertura più capillare e finanziariamente sostenibile; le normative sul porto d’armi. Su questi e su molti altri temi cari alla sinistra americana la gente, a grandi linee, condivide la soluzioni proposte dai Democratici.
Il punto dolente su cui il Partito Democratico rischia di far naufragare le proprie aspirazioni è principalmente uno: l’immigrazione.
Quello degli esodi di massa verso l’Occidente e dei sommovimenti politici che essi stanno creando è uno dei fattori che ha favorito fenomeni recenti come l’ascesa di Trump in America, della Lega in Italia, le derive autoritarie nell’Europa dell’Est, Brexit eccetera.
Se da una parte queste migrazioni di massa vengono efficacemente strumentalizzate in termini razzisti e xenofobi dalle destre, questo non significa che le forze progressiste, pur rifiutando giustamente questi rigurgiti di intolleranza, debbano ignorare problemi gravi, reali e immediati che un’immigrazione continua ed incontrollata comporta sia nel breve che nel lungo periodo.
Quando il candidato democratico Julian Castro ha dichiarato nel corso del primo dibattito televisivo l’intenzione di depenalizzare il reato di immigrazione clandestina, per quanto moralmente lodevole risultasse l’intento, non ha fatto altro che regalare su un piatto d’argento, migliaia di voti a Donald Trump.
Stessa cosa per quei candidati che hanno espresso la loro disponibilità ad estendere agli immigrati clandestini una futura copertura sanitaria che al momento non esiste neanche per milioni di americani.
Come ho scritto in precedenza il dibattito sull’immigrazione deve sfuggire una volta per tutte, all’idiota contrapposizione retorica tra l’incudine del “buonismo” e il martello della xenofobia e prendere atto della realtà, soprattutto in una prospettiva di lungo termine.
I paesi occidentali hanno bisogno di immigrazione per sostenere i loro bassissimi livelli di natalità.
A mio parere inoltre, devono assumersi le loro responsabilità sia in relazione ai danni ambientali perpetrati sul resto del pianeta dai loro (nostri…) standard di vita e sia sugli accordi internazionali per l’accoglienza dei rifugiati che hanno sottoscritto in passato.
Tuttavia, per quanto sia difficile trovare argomenti anti-immigrazione di stampo conservatore che non siano contaminati in maniera più o meno esplicita da sentimenti xenofobi o razzisti, vale la pena fare attenzione anche ad argomentazioni più plausibili provenienti da quella parte meno becera del “restrizionismo” americano. Una di queste ad esempio, sostiene che i trattati internazionali sui rifugiati risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta, siano ormai obsoleti per far fronte alla crisi attuale.
Secondo questa teoria, è inutile applicare i parametri delineati dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951 in quanto si riferiscono ad una situazione geopolitica completamente inadatta rispetto alle circostanze attuali.
Nel 1951 e per molti degli anni a seguire, gli esodi di massa erano eventi statisticamente più rari, numericamente più contenuti e geograficamente limitati ad aree di conflitto facilmente identificabili ai fini del riconoscimento dello status di “rifugiato”.
Tutto questo non sarebbe più applicabile al giorno d’oggi poiché questi stessi esodi non sono più solo episodici o legati a crisi temporanee e circoscritte, ma parte di un flusso costante ed ininterrotto verso l’Occidente di persone il cui status resta, in molti casi, indefinibile e inverificabile, anzi spesso intenzionalmente manipolato dalle mafie che gestiscono il fenomeno migratorio, proprio per sfruttare l’inevitabile vaghezza di queste zone giuridicamente grigie.
E’ realistico pensare che, ad un certo punto, questo flusso ininterrotto possa condurre a conseguenze impreviste ma destabilizzanti per gli assetti socio-politici interni agli stati ospiti?
Sembrerebbe una domanda legittima a prescindere dalla sua colorazione politica.
Un altro punto che alcuni conservatori americani portano avanti (e che tra l’altro fa leva su un argomento caro alla sinistra come l’emergenza ambientale) sostiene che, stando alle proiezioni statistiche sui potenziali disastri climatici prossimi venturi, questi esodi di massa sono destinati solo ad aumentare e che, senza una strategia immediata e di lungo termine, l’Occidente rischia di trovarsi, in un futuro prossimo, di fronte ad un’emergenza immigrazione molto più difficile da gestire sotto tutti i punti di vista.
Un candidato democratico con una piattaforma elettorale che includa una valutazione oggettiva del fenomeno migratorio e disposto a dichiarare senza mezzi termini che, qualora si rivelasse necessario, i flussi migratori devono essere gestiti e controllati (quello che in America chiamano Border Security), avrebbe le prossime elezioni presidenziali in tasca!
Una proposta di questo genere nel proprio arsenale retorico, consentirebbe al candidato disposto ad adottarla, di sdoganare molti altri punti del suo programma politico (da “Medicare for all” alle università gratuite che sono già viste di buon occhio dall’opinione pubblica) senza doverli annacquare per renderli più accettabili agli indipendenti e centristi. Forse il contesto delle elezioni primarie sta spingendo molti dei candidati in lizza, inclusi i “capifila” Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, a prendere posizioni più radicalmente progressiste come ribadito anche nel dibattito di ieri sera.
Ma Sottrarre alla controparte repubblicana l’arma propagandistica dell’immigrazione contribuirebbe ad arginare la deriva reazionaria, populista e xenofoba che, sia in America che in molti paesi europei, rischia di smantellare le conquiste conseguite dalle forze progressiste dal Dopoguerra ad oggi in campo, politico, sociale e ambientale e, non dimentichiamolo, avrebbe ottime possibilità di sfrattare Trump dalla Casa Bianca.