L’ennesimo episodio di mala immigrazione vissuto da Italia ed UE in quel di Lampedusa, con la capitana di Sea Watch 3, la 31enne tedesca Carola Rakete, prima insultata (“Spero che ti violentino ‘sti negri”, “venduta, “tossica”, “manette”, “vipera”, “ti piace o cazzu niro” si ascolta nella registrazione messa online dal senatore Pd Davide Faraone, a bordo dell’imbarcazione), quindi arrestata per un processo che potrebbe costarle da 3 a 10 anni, istiga chi vuole ancora usare la testa invece dello stomaco a ragionare sul buco nero nel quale la questione emigranti sta cacciando l’Italia, diversi altri paesi europei di prima linea, l’UE nel suo insieme.
Mentre sta per concludersi il quarto decennio dell’Italia paese di immigrazione più che di emigrazione (l’Italia cessa ufficialmente di considerarsi paese di emigrazione dal 1980) sarà il caso di mettere alcuni punti fermi, sui quali trovare la condivisione che porti alla quadratura del cerchio.
Mettiamola così. L’emigrazione/immigrazione è una di quelle cose necessarie e indispensabili, sgradite ai più, che quindi occorre far accadere nel modo più “giusto” e indolore onde evitare le onde d’urto che altrimenti genererebbe. L’emigrante resterebbe volentieri a casa sua se lì avesse una vita decente per sé e famigliari, affronta l’ignoto sapendo che può incontrare fatica dolore e persino la morte, perché spera in una situazione comunque migliore della disperazione nella quale versa. Chi è chiamato ad accoglierlo, di fronte al “diverso” che è ogni immigrato, farebbe volentieri a meno di lui ma lo accetta perché ne abbisogna per ragioni utilitaristiche, salvo i pochi che ascoltano il richiamo della solidarietà e della pietà che la legge naturale e millenni di evoluzione hanno incapsulato nel profondo degli esseri umani.
La storia è un susseguirsi di emigrazioni e immigrazioni, iniziate per la Bibbia con la cacciata di Adamo ed Eva dalle delizie nelle quali Dio li aveva collocati e proseguite con Caino eterno emigrante che nessuno deve toccare, per la scienza con l’esodo di Homo Sapiens dall’Africa centrale verso l’emisfero occidentale. Non esiste sulla faccia della Terra un solo umano che possa dire di non essere figlio di un emigrante: che sia stato un poveraccio con le toppe in quel posto, un conquistatore ardito o assassino, un colono o un missionario, alla fine poco importa perché i nostri DNA individuali e di gruppo sono tutti inesorabilmente blend di importazione.
Il che non sposta molto in quanto alla risposta da fornire alla questione. Se anche gli irriducibili avversari degli immigrati aderissero alla teoria, giustamente direbbero: va bene che nella storia un chiodo da sempre scaccia chiodo, ma il nuovo chiodo a sua volta non ha nessuna voglia di farsi scacciare, e quindi sarà istintivamente contrario a qualunque chiodo voglia infilarsi dove lui è felicemente collocato! È così vero, che di immigrazioni non conflittuali se ne contano pochine nella storia; basti pensare a cosa sono costate, in termini di umano dolore ammazzamenti e distruzioni, la conquista e la colonizzazione delle Americhe effettuate dall’uomo europeo nel corso degli ultimi cinque secoli. Resta, tuttavia, che i chiodi possono affiancarsi ad altri chiodi: non devono necessariamente soppiantare quelli precedenti.
Nel caso dell’Europa, pluralismo dei chiodi significa che la sindrome demografica della quale soffre, la obbliga ad accettare anzi a cercare immigrati, se non vuole avviarsi al declino fra qualche decina di anni, e alla scomparsa dalla storia che conta nel prossimo secolo. All’inizio del XX secolo l’Europa contava ¼ della popolazione mondiale, ridottasi all’11% nel 1960 e al 6% oggi. Nel corso di questo secolo, a meno del sostegno degli immigrati, è previsto scenda al 4%: cinque volte di meno in appena due secoli. Già al termine del decennio entrante, il continente esibirà il più alto numero di anziani al mondo con un’età media pari a 45 anni contro la media mondiale di 33 anni, quella nord americana di 40, quella africana di 21. Meno popolazione e più vecchi significa, fra le tante cose, avere meno gente che lavora e produce: disporre quindi di meno ricchezza. L’UE a 27 (senza la Croazia) nel 2004 deteneva il 26% della ricchezza mondiale, oggi poco più del 20%. Andrà peggio alla metà del secolo quando, fra 30 anni, l’UE si ritroverà con 80 milioni di abitanti in meno rispetto al presente.
Per l’Italia può andare anche peggio. I conti li hanno fatti da tempo Caritas e Migrantes, pubblicandoli in Dossier Statistico Immigrazione 2017. Nel 2050 la sua popolazione nell’ipotesi mediana sarà pari a 61,6 milioni dei quali circa 51 italiani, con una discesa dei due dati rispettivamente a 55,6 e 46,7 nel caso dell’ipotesi inferiore. Alla stessa data, la gente in età lavorativa (15-64) sarebbe scesa al 53,2% del totale, con l’età media della popolazione pari a ben 49 anni. Nel frattempo, proseguendo il riscaldamento climatico, si saranno incrementati fenomeni come la desertificazione/tropicalizzazione di aree del mezzogiorno e il conseguente abbandono di fette di territorio da parte delle popolazioni locali.
Ci si chiederà: se davvero le cose stanno così, perché la politica non ne parla, e invece intossica le menti con vicende come quella di Sea Watch che riguarda qualche decina di disgraziati in cerca di approdo sicuro?
La difficoltà europea all’accoglienza degli stranieri ha diverse ragioni.
Sicuramente il fatto che storicamente l’Europa è luogo di emigrazione (solo tra 1870 e scoppio della prima guerra mondiale si è calcolato che si stabilirono fuori dall’Europa 70 milioni di persone, in un esodo da ovest ad est di dimensioni mai prima viste nella storia umana). Appena mezzo secolo fa è chiamata a dover gestire un fenomeno che non conosce e che per molti versi la stravolge, eleggendola nel presente decennio a regione di maggiore immigrazione al mondo.
Inoltre ad immigrare sono soprattutto persone che non corrispondono all’abituale conformazione demografica del vecchio continente fatta di bianchi cristiani cattolici o protestanti. In certe parti d’Europa ancora oggi il nostro meridionale cotto dal sole e magari baffuto, viene guardato con diffidenza, in particolare se va ad infilarsi in qualche angolo protestante e si professa cattolico; figurarsi il maghrebino islamico cosa può attendersi dal pregiudizio degli indigeni.
Pregiudizio, come dice l’etimologia del termine, è posizione che prescinde dal meditato e documentato giudizio. Una delle constatazioni più frequenti rispetto all’allogeno è che “non è poi tanto male a conoscerlo di persona”, “beh ora che lo frequento devo dire che mi sbagliavo a giudicarlo in quel modo”. Quanti Wasp statunitensi hanno utilizzato le stesse espressioni verso italiani americani, guardati con diffidenza iniziale e poi, una volta conosciuti e frequentati, magari invitati al cocktail nel salotto buono della villa a prato raso?
Un’inchiesta del 2018 di Eurobarometro mette a confronto la risposta media Ue con quella registrata in Ungheria, rispetto alla domanda “Ti senti timoroso o tranquillo a frequentare un immigrato per ragioni personali o di lavoro”? La media UE28 di tranquilli è 57% contro il 17% ungherese. Gli ungheresi non hanno che pochissimi immigrati, quindi manifestano paura verso qualcosa che disconoscono. Sempre gli ungheresi, alla domanda se gli immigrati siano più opportunità o problema, rispondono problema nel 63% dei casi, contro il 38% dell’UE a 28.
Pregiudizio, nei fatti, è anche nelle posizioni espresse da chi non assume notizie precise sull’immigrazione, sotto il profilo quantitativo (quanti sono) o qualitativo (rendono più di quanto costino, o viceversa). Così quando German Marshall Fund, nel 2016, pubblica il responso alla domanda “Sono troppi gli immigrati nel tuo paese?” e distingue, nelle risposte, chi sa il numero di immigrati e chi lo ignora: in Italia risponde sì il 22% di quelli che conoscono i numeri e il 44% degli altri.
Da queste poche considerazioni, si conferma che la questione immigrati vada esaminata, a freddo e fuori dalle ideologie, per quello che è. Accertato che vi è bisogno di immigrati, in Europa occorre distinguere tra immigrati intenzionati a stabilirsi nel continente per lavorare e contribuire alla curva demografica, e i richiedenti protezione internazionale che resteranno solo per il tempo necessario.
I secondi vanno accolti senza se e ma, perché si tratta di salvare vite umane e perché le leggi internazionali così prevedono. Per i primi, occorre che a gestirne numeri e qualità soccorra l’UE, trattandosi di questione continentale, non solo nazionale. Dal che deriva che i governi, a cominciare da quelli nazional populisti che sugli immigrati incassano facili consensi elettorali, devono dare alla Commissione Europea poteri che non ha.
In alternativa si accetti la prospettiva di un’Europa “inferiore”, composta da meno cittadini, più povera, anziana. E ci si attrezzi alla vera invasione dall’Africa che, stando così le cose, avverrebbe inesorabilmente nella seconda metà del secolo.
Le stime demografiche globali fatte circolare qualche settimana fa da Pew Research Center, in uno studio firmato da Anthony Cilluffo e Neil G. Ruiz, confermano che entro la fine del XXI secolo
L’Africa crescerà più di tre volte, arrivando al tetto di 4,3 miliardi, mentre l’Europa, dopo aver raggiunto il picco storico di 748 milioni nel 2021, inizierà l’inarrestabile discesa che la porterà in ottant’anni a una popolazione inferiore a 600 milioni. L’innalzamento dell’età media priverà di sostenibilità molti settori economici e sociali, depotenziando diverse funzioni basilari del vivere relazionale e assistenziale.
Alle porte di quell’Europa, ci sarà l’Africa immensa, pulsante e giovanissima: già nel 2050, rispetto ad oggi la sua parte sub sahariana avrà ulteriori 630 milioni e mezzo di gente in età lavorativa e la sua fascia mediterranea ulteriori 60 milioni, per un totale di 700 milioni di bocche con braccia, e soprattutto piedi: molti di questi si dirigeranno inesorabilmente verso l’Europa.
Il paradosso delle nostre democrazie è che la gente si fa male da sé votando non sulla base di conoscenze ma di emozioni, sensazioni, percezioni. Così facendo rischia di riconsegnare il destino europeo nelle mani di quei ceti nazionalisti che hanno causato il declino storico del continente nel corso del XX secolo. Quel paradosso va spezzato: le due sfide epocali del secolo, climatica e demografica, trovano quei ceti confusi e l’un contro l’altro armati, uniti solo dalla voglia di riprendersi dalle istituzioni comuni i pochi poteri sovranazionali loro consegnati nei decenni di Comunità europee. Dalla sindrome demografica si guarisce solo chiedendo all’Unione di riprendere il progetto federale delle origini, varando le politiche sociali e di cooperazione internazionale necessarie. Includeranno nuove regole per welfare e immigrazioni, adeguate ai bisogni nostri e dell’Africa, da qui ai decenni in arrivo. Così si metterà anche al riparo il nostro sistema democratico.