È forse la sua attitudine alla dissolvenza a farne un luogo-non luogo, sempre meno popolato di esseri con un occhio strabico, in cerca di vie di fuga.
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Il Gomito di Sicilia di Giacomo Di Girolamo è una terra strana, così vicina e così lontana. A tratti indecifrabile anche per chi, stancamente o irrimediabilmente, continua ad abitarla. E il mare, quel bel mare che tutti le invidiano, è “pericolosissimo”, perché accentratore di attenzioni.
Ne ha viste di storie e di Storia, il mare che costeggia questo Far West siciliano: quasi un nodo su una cartina che ora compare, ora scompare, che si lascia intravedere “a pelo d’acqua”, proprio come l’antica via che collegava l’isola di Mozia alla terraferma.
Firma pregevole della Voce di New York, nonché direttore di Tp24 e Rmc101, Giacomo Di Girolamo si muove attraverso una geografia delle assenze in un libro dal titolo emblematico e sibillino, ambientato nella punta occidentale della sua Sicilia. Una punta che più estrema non si può: nei suoi sprazzi di gloria, nei suoi scatti d’orgoglio (spesso sterile e superficiale), e nei suoi tanti angoli di sconfitta e abbrutimento cui ormai gli occhi dei più sembrano semplicemente non fare troppo caso.
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Quella che però, questa volta, Di Girolamo mette nero su bianco non è una denuncia, bensì una lettera. Indirizzata a una sorella partita, che torna in estate – il tempo di quattro bagni, un cannolo e un abbraccio di famiglia – ma che oramai vive altrove. Come la maggior parte di quelli che all’isola avrebbero magari potuto dare un respiro e un racconto diverso.
È una geografia delle assenze, questa, procede tra smarrimento e nascondimento, in luoghi che per te sono amnesiaci e fuggitivi, sorella mia, e che si fanno loro stessi complici dell’oblio. È una sorta di attitudine alla dissolvenza che ha il gomito di Sicilia.
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Un libro che è un susseguirsi di immagini e di pensieri, che affollano la mente di chi, nel gomito di Sicilia, continua a vivere e ad “arrovellarcisi la testa”.
Gomito di Sicilia mette a fuoco ciò che nel quotidiano è pressoché ridotto a rumore di fondo, chiacchiericcio che si perde per vie apparentemente senza sbocco e senza meta, lì dove emergono le mille storie dell’incompiuto e del non detto, dell’inafferrabile e dell’immutabile.
Ci vorrebbe una sana ribellione, innanzitutto, contro questo racconto che di Trapani si fa, come di Sicilia irredimibile. Che non significa sminuire i fatti, la loro gravità. Significa evitare lenti deformi, con le quali si alterano le cose, con toni da fine del mondo che servono solo a chi, predicando la fine del mondo per ogni cosa che accade in questa parte della Sicilia, ha solo da guadagnarci.
Una provincia che restituisce il Marsala, vino da contemplazione per eccellenza – osserva Di Girolamo – ma anche una “materia” che lui ben conosce, l’imprendibile Matteo Messina Denaro. E poi, i templi di Selinunte, che fiancheggiano trazzere di ulivi e vigneti lavorati dagli ultimi della terra, sfruttati dai penultimi.
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Ancora, le saline, gli aeroporti fantasma e le case abusive, costruite proprio lì, dove il mare beffardo “si mangia la costa”. E il terremoto del Belìce, con il suo transitorio che diventa definitivo, con il suo Cretto di Burri, colata di cemento a imprigionare le macerie di un tempo interrotto, che non riparte da 50 anni:
Il Cretto è un labirinto. Ed è uno stato d’animo. Assomiglia alla condizione di molti, i più sfortunati di noi, sorella mia. Che non sono quelli che partono, o quelli che restano. Sono quelli che si perdono. Non sono pochi. Resistono a lungo, convinti della loro ribellione, disarmata e mite. Poi gettano la spugna. Milano/Torino/Bologna li sconfiggono. Allora si perdono tra le vie di quelle città, così ordinate, cartesiane, che diventano il loro Cretto.
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Nell’ovest che più ovest non si può, laddove vivere significa abituarsi ai tramonti, cioè ad un lento rincorrersi di epiloghi, Giacomo di Girolamo mette qualche puntino di sospensione qua e là. Lascia al lettore la “possibilità d’intravedere”.
Che questi si trovi seduto su una panchina del Gomito, a rimirare il luccichio dell’acqua su cui riverberano le barche superstiti, o a prender posto su un aereo diretto sempre un po’ più a nord – con il magone in gola e la nostalgia di una casa che sembra sempre la stessa, ma che in realtà non lo è mai – quello di Di Girolamo è un invito a non ignorare il richiamo del vento.
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Che, malgrado tutto, fra il perdurare di una bellezza disarmante e le brutture di ieri e di oggi, continua a soffiare. Un vento foriero di suggestioni, che echeggia di vita e di morte, di storie altre e di possibili mondi. Tutti lì, dentro al Gomito di Sicilia.