Da quando è tornato negli USA dopo primo tour presidenziale in Europa e Medio Oriente, Donald J. Trump è di nuovo sottoposto a un incessante fuoco di fila da parte dell’opposizione. Al centro di tutto il cosiddetto Russiagate, il fantomatico scandalo di cui tutti parlano, ma del quale in pochissimi, se interrogati al riguardo, riescono a definire con precisione i contorni.
A far discutere, questa volta, è la recente testimonianza resa dall’ex capo dell’FBI James Comey davanti alla commissione del Senato incaricata di indagare sull’affare russo. In particolare, la tempistica del suo licenziamento, avvenuto all’inizio di maggio, è considerata da molti come un tentativo di bloccare un’ulteriore indagine condotta proprio dall’FBI sulle interferenze russe nel corso delle presidenziali.
Non appena Trump ha fatto fuori Comey, dalle bocche degli esponenti democratici è esploso con insistenza un grido rimbalzato a tutto volume su tv e giornali: impeachment!
Stando all’opposizione, la giustificazione per la messa in stato d’accusa del presidente sarebbe l’ostruzione di giustizia dimostrata con l’esautoramento di Comey, anche se l’indagine continuerà in ogni caso sotto la guida del procuratore speciale Robert Mueller, un veterano dell’agenzia ben più rispettato del suo predecessore.
Ma cosa ha detto Comey davanti ai senatori dopo una maratona di 4 interminabili ore? Nulla di così grave da far barcollare l’amministrazione in carica (tanto che le borse hanno mantenuto la calma), ma abbastanza per dare un’ulteriore spinta al movimento d’opposizione. Come già avvenuto durante la campagna elettorale (e come vi abbiamo raccontato da queste colonne) l’ex capo dell’agenzia si è confermato un personaggio ambiguo, che sembra perseguire fini diversi da quelli ai quali dovrebbe normalmente dovrebbe tendere un’autorità nella sua posizione.
In più occasioni durante l’interrogazione, Comey ha detto di essersi “sentito a disagio” e sotto pressione rispetto ad alcune affermazioni del presidente, che gli avrebbe esplicitamente demandato “lealtà”, cercando (così sembra) di influenzarlo durante l’inchiesta.
Ebbene, dopo aver lanciato tali gravi accuse, gli è stato chiesto se secondo lui le richieste di Trump fossero un effettivo tentativo di ostruire la giustizia. La risposta? Un sonoro “non lo so, non spetta a me valutarlo”, tipico dello stile dell’ex capo dell’FBI. Fateci caso, è il suo marchio di fabbrica: durante la conferenza stampa che concluse l’inchiesta sulle mail di Hillary Clinton, il nostro seguì lo stesso schema, assolvendo la candidata democratica (“nessun ragionevole pubblico ministero perseguirebbe un caso del genere”) ma rimproverandole comportamenti gravissimi che suonarono di fatto come un giudizio di colpevolezza. Non solo. A ridosso dall’election day Comey ritornò al centro della scena, annunciando la riapertura dell’indagine salvo poi precisare nei giorni successivi che non c’era nulla di compromettente. Ma il danno era ormai fatto.
A prescindere dalla personalità di Comey, durante la sua testimonianza abbiamo scoperto altri aspetti importanti. Il primo riguarda il New York Times, il quale a febbraio ha lanciato un finto scoop pubblicando un articolo in cui si parlava di “continui contatti tra il team di Trump e i russi”, che Comey ha confermato essere basato su informazioni false. Altro che Russia Television.
Il secondo, che ci conferma come parti degli apparati stiano in questo momento conducendo una guerra parallela e sotterranea contro l’attuale amministrazione, è che l’ex direttore dell’FBI è stato per sua stessa ammissione responsabile di una fuga di notizie.
Dopo Comey, ieri è poi toccato all’Attorney General Jeff Sessions comparire di fronte alla commissione, ma dalla sua testimonianza non sono uscite novità sconvolgenti. In una noiosissima seduta durata 2 ore il ministro ha negato qualsiasi collusione con i russi.
In tutto ciò, sulla sostanza sulla “collusione” tra Trump e Putin ancora sappiamo poco. L’unica cosa certa è che il team del tycoon è stato in contatto con esponenti del Cremlino. Analizzando la questione a mente fredda, il motivo è banale: cercare di approntare un canale di comunicazione parallelo in vista di un futuro riavvicinamento diplomatico, esattamente come fece Barack Obama nel 2008, quando prese contatti con gli iraniani ponendosi come interlocutore alternativo rispetto all’uscente amministrazione Bush.
Per il resto, a quanto risulta fino a ora, i russi non hanno interferito nelle elezioni truccando i voti ma al massimo hackerando la mail di John Podesta e del DNC, dalle quali sono uscite tutte le magagne (verissime) compiute dallo staff di Hillary Clinton per “truccare” le primarie a proprio favore. Una storia che se pubblicata da un giornalista gli sarebbe valsa il premio Pulitzer.
Insomma, se ci fosse qualcosa di davvero grosso, a quest’ora Trump sarebbe già a Mar a Lago in pensione. Non è detto però che nel cosiddetto deep state non si stia lavorando sodo per costruire uno scandalo coi fiocchi in grado di far tremare gli States dall’Atlantico al Pacifico.
La tragedia è che se qualcosa del genere dovesse accadere, questa volta il quarto potere non fungerà da “cane da guardia della democrazia” ma da macchina propagandistica pronta ad assecondare i disegni dell’apparato.
In tutto ciò, il partito democratico ha deciso di condurre una strategia miope e controproducente. Subito dopo la sconfitta elettorale, di fronte a un personaggio impopolare come Trump i dem avevano infatti due strade davanti. La prima era quella di analizzare i motivi della sconfitta e fare opposizione sui contenuti, abbracciando finalmente un’agenda economica progressista e populista in modo da stravincere le elezioni di medio termine nel 2018.
D’altronde i temi su cui contestare Trump in politica interna non mancano: il nuovo presidente sta tagliando in maniera drammatica la spesa sociale, deregolamentando Wall Street e disattendendo le promesse elettorali fatte a suo tempo alla working class.
La seconda strada era quella di costruire un’opposizione ad personam tutta basata sull’odioso carattere di Trump, dipingendolo come un sanguinario tiranno e usando qualsiasi mezzo per delegittimarlo, compresa l’accusa di essere un agente segreto pilotato da una potenza straniera nemica.
È su quest’ultima via che i democratici hanno investito tutto il proprio capitale politico, depotenziando per ciò stesso la lotta politica seria. E per chi è vissuto in Italia è come rivivere in pieno l’epoca di Berlusconi, quando invece di proporre un’alternativa, l’opposizione della sinistra italiana finì per rafforzare il sostegno dell’elettorato al cavaliere. Tutto ciò in un clima irrespirabile da guerra civile, che per due decenni imbarbarì il dibattito politico nel nostro paese, marginalizzando qualsiasi discorso sui contenuti.
Ma facciamo un’ultima ipotesi. Ammettiamo che, trascinato dal suo carattere impulsivo, Trump commetta un’imprudenza tale da costargli l’impeachment. Anche i repubblicani gli volterebbero allora le spalle formando la larga maggioranza richiesta per farlo fuori. Sarebbe una mossa politica saggia per i democratici?
Chi vi scrive crede di no, dato che al posto di Trump subentrerebbe Mike Pence, un repubblicano del Tea Party rappresentante di una “destra” ben più estrema di quella trumpiana, soprattutto in materia economica (Pence è favorevole ai trattati di libero scambio rigettati dagli elettori) e in politica estera (ha una visione interventista ben più aggressiva in contesti come l’Ucraina e la Siria).
Certo, si tratta di un uomo sorridente ed estremamente educato rispetto a The Donald. Ma siamo sicuri che basti?