Il vertice dei “sette grandi” a Taormina ha messo fine al primo viaggio del presidente Trump fuori dagli Stati Uniti. Rispetto ai suoi predecessori, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha deciso di iniziare il proprio tour in Medio Oriente, visitando l’Arabia Saudita e Israele e recandosi poi in Europa, dove ha tenuto importanti incontri a Roma e Bruxelles prima di partecipare al G7. Qual è dunque il bilancio di quello che la stampa ha definito “TrumpTour”? E quali saranno le prospettive nei rapporti tra la nuova amministrazione e l’Europa? Lo abbiamo chiesto a Daniele Scalea, direttore dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) condirettore della rivista scientifica Geopolitica e animatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, che giovedì scorso ha tenuto un convegno incentrato proprio sulla relazione tra la nuova amministrazione USA e l’Europa, alla presenza, tra gli altri, di Ted Malloch, ambasciatore designato da Trump presso l’UE.
Partiamo da una breve considerazione sul G7. Ha ancora senso un consesso del genere? Se sì, quale?
“Il G7 mantiene la sua importanza come opportunità di riunione e di confronto tra paesi che “parlano una lingua comune”. Non solo le potenze occidentali, ma il Giappone (e se venisse meno il divieto anche la Russia) costituiscono le cosiddette “democrazie di mercato” e sono accomunate quindi dal fatto di esprimersi in un identico linguaggio. Fino ad adesso, come ha notato tra l’altro il premier Gentiloni, eravamo abituati a G7 in cui già prima di riunirsi gli stati avevano trovato un accordo su tutto e il documento finale aveva quasi una funzione celebrativa. Stavolta, invece, c’era molto da discutere. Ricordiamoci che erano presenti quattro nuovi leader su sette, e che oltre alle differenze tra Trump e gli altri su molte questioni, anche Theresa May si è trovata in una posizione inedita nei confronti dell’Europa alla luce della Brexit. Insomma, il primo risultato positivo è questo: finalmente ci si è confrontati con opinioni e prospettive differenti su diversi temi. Non mi sembra sia un male”.
Qual è secondo Lei, il bilancio del primo viaggio presidenziale di Trump? Quali erano in particolare gli obiettivi che il presidente voleva raggiungere? Ci è riuscito?
“Dopo il primo viaggio presidenziale, Trump ha dimostrato di avere un progetto forte in del Medio Oriente, di cui non si era ancora parlato e che fino a ora non era mai trapelato. Al riguardo non c’è l’idea di un disimpegno nella regione, ma piuttosto la ripresa di una strategia già in parte messa in campo negli ultimi tempi della presidenza di George W. Bush. In sostanza, si sta tentando un rafforzamento dell’alleanza sunnita al fine di frenare la crescente influenza iraniana nell’area, già agevolata in passato dal controproducente rovesciamento di Saddam Hussein. Certo, non è una strategia priva di rischi, perché alcuni paesi sunniti si sono spesso serviti del jihadismo per raggiungere i loro fini politici. L’idea, oggi, è quella di creare un fronte compatto sia contro l’Iran sia contro il terrorismo, che includa Israele, Arabia Saudita ed Egitto. Su questo asse si innesta poi un’enorme e difficile scommessa: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, questione sulla quale è in corso uno sforzo inatteso da parte della nuova amministrazione americana”.
Quali saranno, presumibilmente, le ripercussioni di questa nuova strategia in Siria?
“Nel contesto siriano per ora permane un clima di indefinitezza, uguale a quella che caratterizzò la presidenza Obama. Non si è ancora capito cosa voglia fare Trump. In Siria, in questo momento è in corso un processo di “cantonalizzazione”, guidato da potenze come Russia e Turchia, che in futuro potrebbe accontentare tutti gli attori in gioco. Trump potrebbe seguire questa linea, cercando di ridurre al minimo l’influenza dell’Iran. Fare previsioni ora è impossibile, ma ricordiamoci che tra poco più di un mese ci sarà l’incontro fra Trump e Putin, e da quel meeting potremo capire meglio se i due riusciranno a gestire insieme la situazione siriana, o se al contrario nella regione si andrà verso uno scontro strategico tra le due potenze”.
Nel convegno di giovedì avete ospitato il Prof. Malloch, ambasciatore designato Usa presso l’UE. Che tipo di Europa auspica la nuova amministrazione di Washington? Al riguardo la posizione di Trump è apparsa in alcuni momenti altalenante. Durante la campagna elettorale il presidente è stato un entusiasta sostenitore della Brexit, poi in altre occasioni ha affermato di “credere nell’Europa” e infine in questi giorni trapelava una certa tensione tra il nuovo presidente e i rappresentanti più importanti dell’Unione Europea. C’è una strategia coerente in questo momento da parte degli USA?
“Credo che Trump e il suo entourage abbiano una preferenza ideale e politica nei confronti dei movimenti europei di destra nazional populista, come quello di Salvini in Italia o di Le Pen in Francia, ed è ovvio che si troverebbero maggiormente a loro agio a discutere con le destre europee. Tuttavia devono confrontarsi in questo momento con un’Europa diversa. L’obiettivo principale è dunque di puntare sulle relazioni bilaterali con i vari stati europei, in modo da garantire agli USA una maggiore forza contrattuale. Il rapporto con l’Europa nel suo insieme non passerà tanto dall’Unione Europea ma dalla NATO, che assumerà un’importanza di gran lunga maggiore. Per un motivo molto semplice: gli USA, all’interno dell’Alleanza Atlantica, sono egemoni, e possono nel suo quadro indirizzare meglio le questioni di interesse comune. Di certo, non ci si saranno da parte di Trump appelli a favore dell’europeismo come quelli di Obama. In generale, vi sarà una predilezione nei rapporti con i singoli stati e meno attenzione ai vincoli multilaterali. Un esempio è quello dell’Organizzazione Mondiale del commercio, a cui Trump non vuole sottomettersi per evidenti ragioni di agenda economica”.
C’è stato nella storia recente qualche altro presidente americano che ha avuto un rapporto simile a quello di Trump con l’Europa?
“Con Trump si è indubbiamente raggiunto il parossismo sia per la natura del personaggio, sia per l’atteggiamento dei media europei, che hanno messo in atto una grande campagna stampa contro di lui. Anzitutto dobbiamo ricordarci che qui in Europa diversi paesi hanno governi di centro-sinistra, e in aggiunta non esiste un pluralismo dell’informazione come negli Stati Uniti. La “linea” dei media tende verso sinistra e nei confronti dei presidenti repubblicani c’è in genere maggiore avversione. L’abbiamo già visto in passato. Anche George W. Bush fu descritto dalla stampa europea con toni canzonatori. Oggi Trump è un “pazzo cafone”, in passato Bush junior era uno “stupido guerrafondaio”. Al contrario i toni cambiano con i presidenti democratici, visti come una sorta di “leader spirituali”. Nella relazione tra Trump e l’Europa pesano dunque questi fattori: la distanza politica e la cultura dell’informazione egemonizzati dalla sinistra”.
Passiamo ai rapporti USA-Italia. In molti hanno criticato, nel corso della visita di Gentiloni negli Stati Uniti, l’indifferenza di Trump rispetto alla Libia. Potrebbe essere al contrario una buona notizia per il nostro paese? In altri termini la nostra diplomazia ne potrebbe approfittare per ritagliarsi di nuovo un ruolo di primo piano nella futura definizione della situazione libica?
“A dir la verità, gli USA non sono ai stati in prima fila in Libia, né durante l’intervento militare del 2011, in cui si lasciarono guidare da francesi e britannici, né dopo. La Libia ha sempre assunto una posizione di secondo piano rispetto a contesti come la Siria o l’Ucraina, sui quali tra l’altro si concentrano gli studi di quasi tutti i principali think tank americani. Al contrario, per l’Italia la Libia è fondamentale. Nessun altro ha interessi forti come noi in quell’area. Pensiamo solo alle questioni dell’energia e della sicurezza. Avere di fronte alle proprie coste uno “stato fallito” come la Libia è un problema per l’Italia. Per la verità quando ancora Renzi era primo ministro (e Gentiloni era agli esteri) il nostro paese ne è parso cosciente, tanto che a un certo punto è sembrato disposto a concedere delle truppe a sostegno del governo di Al Sarraj. Nel contesto libico, per raggiungere dei risultati concreti non è però sufficiente lo strumento diplomatico, ma è necessario anche quello militare. Ovviamente l’azione deve essere mirata, per esempio con l’utilizzo di forze speciali e di intelligence, un po’ come stanno facendo i francesi o il presidente egiziano Al Sisi. Ma il nostro paese non ha tali forze o non le vuole utilizzare autonomamente, e in questo quadro è molto difficile risolvere qualcosa senza un “appoggio esterno”. Insomma, purtroppo la situazione libica non è per nulla positiva”.
Appena tornato negli Stati Uniti, Trump sarà di nuovo soggetto a un fuoco di fila mediatico e politico per le presunte “collusioni” (sue e di membri del suo staff) con la Russia. Nel polverone mediatico attuale, è molto difficile capirci qualcosa. Qual è la Sua opinione al riguardo? Secondo alcuni, in fondo si tratterebbe di una guerra sotterranea tra potere rappresentativo (Trump) e potere d’apparato. È d’accordo?
“Assolutamente si. C’è chiaramente uno scontro tra Trump e il cosiddetto “stato profondo”, che si appoggia ai media mainstream americani. Il punto è che il nuovo presidente da fastidio soprattutto per le relazioni che vuole instaurare con la Russia, che in molti pensano siano contrarie agli interessi americani. Negli USA la Russia è vista tradizionalmente come un avversario, e non è un caso che la manovra di chi vuole destituirlo ruoti proprio intorno alla “questione russa”. Che poi ci sia poco dietro le presunte “collusioni” è evidente. Mi risulta difficile pensare che Putin (con tutto il rispetto) sia stato capace di “conquistare” attraverso Trump la presidenza americana. Ciò che di concreto è uscito fino a ora sulla faccenda del Russiagate sono episodi trascurabili, come per esempio il colloquio telefonico tra Flynn e l’ambasciatore russo. Tra l’altro la maggior parte di tali contatti è successiva alle elezioni. Anche l’ultimo episodio che ha riguardato Jared Kushner, il quale avrebbe chiesto ai russi di usare i loro “canali” negli Stati Uniti per comunicare, non rappresenta una prassi inconsueta. Sono convinto che quando Obama vinse le elezioni promettendo una distensione nei rapporti con l’Iran, qualcuno del suo entourage entrò in contatto con gli iraniani. Insomma è normale che ci siano tali relazioni. Quello che non è affatto normale, invece, sono i leaks pubblicati dal Washington Post con i dettagli della conversazione privata avvenuta qualche tempo fa tra Trump e il ministro degli esteri russo Lavrov nello Studio Ovale. I media hanno accusato il presidente di aver rivelato in quella sede “informazioni riservate”, ma sanno benissimo che ciò rientra nelle sue prerogative. La cosa grave è la presenza di qualcuno dentro gli apparati che passa informazioni ai media. Nella peggiore delle ipotesi potrebbe persino trattarsi di un pezzo dei servizi di intelligence “deviati”. Dal punto di vista istituzionale, si tratta di una manovra destabilizzante ai limiti dell’eversione, che utilizza metodi non concepibili”.