A G7 di Taormina concluso, è tempo di bilanci sulla lunga e variegata prima missione estera del presidente Donald Trump. Dai chiaroscuro del viaggio, è possibile trarre qualche certezza e molti dubbi. Tra le certezze, la conferma che l’uomo Trump potrà essere non solo indigesto ma pericoloso.
Negli atteggiamenti tenuti in settimana si è confermato maleducato, prepotente, irascibile, intemperante. Nonostante si sia intuito in più occasioni lo sforzo formativo fatto dallo staff per prepararlo e caricarlo nel modo giusto, con il passare dei giorni gli atteggiamenti di disponibilità al dialogo e di dismissione della predisposizione a battagliare e competere di continuo per confermarsi primo ed unico (deve essere il tic degli arricchiti prestati alla politica: Berlusconi ebbe lo stesso problema), sono stati offuscati da comportamenti da vero bullo come lo sgarbo al presidente di Montenegro per carpirgli la prima fila fotografica. Più dello sgomitare ha preoccupato l’esibizione di tronfia soddisfazione che la videata ha mostrato al mondo intero. Anche di peggio, per gli aspetti protocollari del gesto e perché si trattava di ospiti non membri del G7, può dirsi sul ritardo con il quale Trump si è presentato all’incontro di Taormina con i governanti di paesi africani. La grande nazione americana, al suo vertice, merita ben altro stile.
Come simile personalità possa ulteriormente peggiorare sotto i colpi che gli sferrano quotidianamente gli oppositori e, in questa fase, chi indaga su Russiagate, è questione molto seria.
Detto ciò, e non sembri un paradosso, vien da dire che, almeno in questa fase, le virtù del politico Trump sovrastino i limiti dell’uomo. Il presidente americano si è mostrato più duttile e abile di quanto si potesse immaginare, dando l’impressione di saper scegliere, rispetto agli obiettivi da raggiungere, quando sfumare i vizi congeniti e quando accentuarli. Con il papa ha fatto l’agnellino, con i sauditi il garante dell’equilibrio nel Golfo e la voce grossa verso gli assenti iraniani, con israeliani e palestinesi l’uomo di pace, con europei e alleati (i famigli che possono essere trattati come accoliti) il padrone che dispone e si concede quando e come vuole ad esempio mancando la conferenza stampa di chiusura del G7, togliendo la cuffia della tradizione mentre parla il padrone di casa Gentiloni (lo aveva già fatto a Washington durante la visita del nostro primo ministro), ridendo alle battute di Angela Merkel nonostante poco prima abbia con Tusk definito “molto, molto cattivo” il popolo che lei governa.
Viene da richiamare la risposta-domanda con la quale Joseph Nye, già coordinatore del National Intelligence Council, condivise, in intervista dello scorso aprile di Maurizio Ferrara, i dubbi sull’incombente presidenza Trump. “A quel punto la domanda diventerebbe: quanto velocemente imparerebbe che le proposte avanzate in campagna elettorale sono impossibili e pericolose?”. Aggiungendo che Trump presidente non sarebbe stato uno stupido e avrebbe cambiato idea, come capita ai pragmatici, quando si sarebbe scontrato con gli interessi degli altri stati prendendo atto delle posizioni degli altri leader.
E però Donald Trump non sembra proprio, almeno per ora, avere la stoffa per assumere il ruolo di leader di quello che un tempo si chiamava mondo libero. Come nel domestico risponde alla sua fetta di elettorato, quasi non fosse presidente della nazione tutta, nell’internazionale è incapace di fare i conti con chi lo critica o gli si oppone, di offrirsi al rapporto multilaterale che esige la parità di interlocuzione tra stati, specie se alleati.
Lo si è visto quando ha incontrato il vertice dell’Unione Europea. Gli va dato atto di progressi rispetto a quando, nel 2016 chiamava Bruxelles “hellhole”, e invitava i paesi membri a seguire l’esempio britannico uscendo da UE. Ha anche evitato lo sgarbo di andare nella capitale belga solo per incontrare la Nato, come era circolata voce alla vigilia. Ma non si può certo definire caloroso l’incontro con un’istituzione che mal sopporta; il che spiega il doppio “battibecco” avuto con il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk a Bruxelles e Taormina, uno sgarbo consumato verso i 28 capi di stato e di governo che hanno eletto il polacco a presiedere il loro organo comune.
La gestione del dossier finanziario Nato rivela il medesimo difetto di fondo: l’incapacità a condividere le decisioni e a coinvolgere i partner nella loro osservanza, con l’errata supposizione che le cose possano essere meglio ottenute imponendole. La mancata partecipazione del duo Merkel Trump alla conferenza stampa conclusiva del G7 è ulteriore segnale di un malessere tra alleati che non dovrebbe aver ragione di esistere.
Certezza può essere espressa rispetto alle priorità di politica estera di quest’amministrazione. La guerra armata al terrorismo è agitata dal presidente Trump, in sintonia con il presidente Putin dall’altro lato dell’Europa, come il primo dovere da adempiere da parte della comunità internazionale. Nell’agenda presidenziale non compaiono affatto, o risultano ampiamente sfumate questioni come lo sviluppo dei paesi arretrati, la prosperità globale inclusiva, le ragioni eque del commercio, la soluzione dei conflitti armati, la gestione dei grandi flussi migratori e la ricollocazione dei rifugiati, l’esecuzione degli accordi Cop22 di Parigi. Peccato che si tratti di priorità europee.
Nel documento finale del G7, è stato giocoforza per Trump consentire che quei temi fossero evocati. Ha ingollato il boccone amaro del rifiuto del protezionismo e dell’apertura del commercio internazionale, ma sul resto ha imposto che i toni fossero quanto più possibile sfumati, senza assunzione di significativi e precisi impegni, lasciando di fatto agli stati singoli di assumere i comportamenti che ritengono compatibili con le proprie leggi e il proprio elettorato in materia di immigrazione e rifugiati, isolando gli Stati Uniti sulla questione climatica. Per quanto lo riguarda, vedasi tweet ad hoc, l’impegno ad esprimersi su Cop22 è rinviato di una settimana.
Alla luce di quanto sopra, un’ultima certezza. Nella presidenza Trump, domestico e internazionale finiranno per coincidere e reciprocamente alimentarsi in termini di successo e insuccesso. E’ vero per il cosiddetto Russiagate, è vero per il commercio estero, per migrazioni energia e clima. Il più provinciale dei presidenti americani dalla Seconda guerra mondiale, troverà nella politica internazionale e nella confluenza tra le espressioni di questa e il dibattito interno, le opportunità e i rischi che decideranno il suo quadriennio.
Il dato è strutturale a questa presidenza. In campagna elettorale The Donald scelse di avventurarsi in un programma di rifacimento del mondo: deglobalizzazione, nazionalismo economico e protezionismo, innalzamento delle frontiere, rilancio di produzioni energetiche sporche, muri al confine messicano, cancellazione dei trattati di partenariato commerciale, uscita da Cop 22 sul clima, etc. sono questioni che, sommate al montare dell’affaire Russia, decideranno il destino anche di revisioni tutte interne come la riforma sanitaria.
Passando ai dubbi, la prima istintiva domanda è se, al di là della spocchia del personaggio e del suo pacchiano sfoggio di potere e ricchezza, Trump politico avrà il tempo sufficiente per assumere piena consapevolezza delle sue responsabilità. E agire di conseguenza.
E’ stato detto, in questi giorni, che il suo rinvio di certe decisioni al rientro a Washington, D.C., miri in realtà a preparare una situazione negoziale meno squilibrata per gli Stati Uniti, che potrebbero, nel G20 di luglio, ottenere ciò che, nel G7 dei 4 europei disallineati e del Canada di Justin Trudeau inaffidabile viene ad essi negato.
Il ragionamento fila, ma ci si chiede dove sia la leadership americana di un tempo, in tutto questo. E dove sia la capacità della più forte nazione del mondo di capire che molti dei problemi affrontati in queste agende multilaterali, non sono di pertinenza di questa o quella nazione, ma dell’umanità nel suo complesso e che, come in precedenti occasioni della storia, è dovere del capo della nazione maggiore assumere la responsabilità di convincere gli altri e guidarli verso la soluzione.
Si assiste, al contrario, alla retrocessione americana dentro le proprie mura, alla negazione del Novecento americano, fatto anche di misfatti ma caratterizzato da multilateralismo, interventismo democratico, supporto della casa comune europea, condivisione di tecnologia, apertura del mondo alla società aperta e globalizzata. Se si dovesse consumare l’effettivo tradimento di tanta eredità, a patirne sarebbe l’America, purtroppo con essa anche le nazioni amiche.
In detto ripiegamento vanno inserite altre posizioni emerse dal viaggio trumpiano, alcune malauguratamente gravi e impattanti.
Così la smaccata riaffermazione della scelta di amicizia con l’Arabia Saudita, operata nella grandiosa cornice dei paesi arabi di fede islamica e di confessione sunnita. Nel discorso del presidente l’Iran viene trattato come stato canaglia, sostenitore di terrorismo e guerra: “ … the government that gives terrorists all three—safe harbor, financial backing, and the social standing needed for recruitment. … From Lebanon to Iraq to Yemen, Iran funds, arms, and trains terrorists, militias, and other extremist groups that spread destruction and chaos across the region … vowing the destruction of Israel, death to America, and ruin for many leaders and nations in this room.”.
E’ come se il laborioso sforzo diplomatico di Obama per riequilibrare i rapporto americani con la comunità islamica di confessione sciita (non si dimentichi che anche l’Iraq, dove americani e in genere l’occidente sono dentro sino al collo, è a dominanza sciita) fossero inceneriti all’istante.
Non basta. Non tutti i paesi arabi islamici sono allineati con il regime wahabita di Riyadh. E’ un errore negare, dinanzi a simile platea, le enormi responsabilità che il wahabismo saudita ha nella genesi culturale religiosa e finanziaria del terrore di radice islamista, nella regione araba ancor prima che in altre contrade del mondo.
A meno che la chiave per la comprensione di un errore così marchiano non stia in una frase davvero non elegante rivolta direttamente al re saudita, che Trump ha pronunciato subito dopo le parole citate: “King Salman, I thank you for …. and for your massive investment in America, its industry and its jobs…”. Trump ha appena venduto ai sauditi 110 miliardi di dollari in armamenti e firmato l’accordo per 400 miliardi di dollari d’investimenti nei due paesi. Soprattutto, il presidente sa che, con la Cina, l’Arabia Saudita è il più grande finanziatore del debito statunitense.
E’ anche questa dipendenza finanziaria americana dai fondi sovrani di paesi a regime politico illiberale, a spiegare la dottrina Trump sul rispetto delle specificità nazionali, posto in cima al discorso pronunciato alla corte saudita: “We are not here to lecture—we are not here to tell other people how to live, what to do, who to be, or how to worship. Instead, we are here to offer partnership — based on shared interests and values — to pursue a better future for us all”.
Dottrina accettabile sotto il profilo realpolitico, che va però mantenuta nel campo degli interessi militari commerciali e finanziari, mentre riferirsi a “shared interests and values” non solo genera confusione ma alimenta le preoccupazioni di quanti non condividono certe troppo strette frequentazioni del presidente. Tra l’altro, saranno proprio “certe frequentazioni” a turbare i sonni del presidente di rientro a Washington…