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July 29, 2016
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Il mattino di Philadelphia e la notte di Cleveland

La Convention Democratica si chiude con un discorso "repubblicano" di Hillary Clinton

Massimo ManzobyMassimo Manzo
hillary clinton filadelfia
Time: 5 mins read

“It’s morning in America”. Terminata la Convention di Philadelphia non si può non pensare al celebre spot lanciato da Ronald Reagan nel 1984, quando il carismatico presidente si candidava al secondo mandato. Che c’entra Reagan, penserete. In effetti, può sembrare folle citare uno dei miti Repubblicani per descrivere l’ultimo raduno del Partito Democratico. Eppure, come hanno osservato in molti oltreoceano, il paragone salta subito agli occhi. A notarlo per primi sono stati proprio i commentatori conservatori (quelli seri), con un misto di tristezza e rassegnazione.

Per carità, lungi da noi paragonare gli Stati Uniti di oggi a quelli degli anni ’80. Sono due mondi diversissimi. Tuttavia, a Philadelphia, lo spirito permeato di ottimismo che a suo tempo rese così attraente il messaggio del carismatico Ronnie è diventato patrimonio dei democratici e l’intero evento, soprattutto nel corso degli ultimi due giorni, è ruotato attorno ad alcuni temi costanti: l’inguaribile fiducia nel futuro, il patriottismo, la retorica dell’eccezionalità americana e del ruolo di guida degli USA nel mondo. Repertorio con cui decenni fa proprio i conservatori tentavano di veicolare un messaggio di unità nazionale.

Con indubbia efficacia, il tutto è stato riproposto in salsa progressista e bipartisan grazie alla maestria con cui gli oratori più attesi hanno confezionato i loro interventi, “salvando” una Convention che altrimenti rischiava di risolversi in un flop.

Il raduno di Philadelphia era infatti iniziato nel segno delle divisioni e del malcontento dei sostenitori di Bernie Sanders, dopo che alcune mail rese note da Wikileaks provavano l’atteggiamento a dir poco scorretto della dirigenza del partito nei confronti del senatore del Vermont durante le primarie. Uno scoop che ha portato alle imbarazzanti dimissioni di Debbie Wasserman Schultz (ex presidente del Comitato Nazionale Democratico) e che poteva trasformarsi in una bomba in grado di minare la riuscita dell’intero evento.

Intendiamoci, le manifestazioni ostili alla nomination della Clinton non sono mancate e le frustrazioni di una parte della base si sono manifestate in marce di protesta a poche miglia dal Wells Fargo Center travolgendo in parte lo stesso Sanders, fischiato dai suoi fan più intransigenti perché “colpevole” di aver ribadito il suo pieno appoggio alla ex avversaria. E se analizzando tali fenomeni con l’aiuto degli ultimi sondaggi sembra che la maggior parte dei sanderiani si sia comunque rassegnato a votare per Hillary, non si può negare che una percentuale minoritaria del movimento creato da Bernie dirotterà la propria preferenza verso candidati alternativi disperdendosi in mille rivoli a novembre.

Detto ciò, però, in uno scenario politico in cui le Convention sono diventate delle grandi vetrine mediatiche, la rabbia dei manifestanti non ha guadagnato il centro del palcoscenico, conquistato invece da una serie di discorsi memorabili. Così, se le luci della prima serata sono state tutte per Michelle Obama, che ha rievocato l’immagine degli USA come land of opportunity in cui tutti possono aspirare a un futuro migliore, il terzo giorno è stato dominato dalle figure del Vicepresidente Joe Biden e del Presidente Barack Obama, autori di potenti orazioni in grado di infuocare il pubblico preparando il campo per il discorso di accettazione di Hillary di giovedì.

Da esperti affabulatori, sia Obama che Biden hanno giocato sull’esaltazione dei tipici valori positivi a stelle e strisce, in netto contrasto con il clima cupo affiorato dalla Convention repubblicana di Cleveland. Ironie della Storia, di fronte a un GOP incapace di trasmettere messaggi di speranza e costretto ad abbracciare l’arrogante narcisismo trumpiano, lo spirito reaganiano è trasmigrato nel partito dell’asinello, che lo ha depurato dei suoi contenuti economici riprendendone la forza evocativa del linguaggio.

Nel suo intervento, a tratti commuovente quando ha ricordato la figura del figlio Beau morto pochi mesi fa, il vecchio uncle Joe, noto per le sue gaffe ma anche per la sua schietta simpatia, ha tessuto un accorato elogio delle virtù americane attaccando il magnate newyorkese con l’arma del patriottismo: “Il ventunesimo secolo sarà il secolo americano. Perché noi siamo mossi non solo dall’esempio della nostra forza, ma dalla forza del nostro esempio” ha tuonato, criticando il modo spudorato con cui Trump flirta con regimi antidemocratici come quello russo e riprendendo un refrain che fa presa al di là dell’affiliazione politica.

Poco dopo, Barack Obama arriva a citare direttamente Reagan, usando l’immagine della “luccicante città sulla collina”, con cui l’ex presidente repubblicano definì l’America, per contrapporlo alla “scena del crimine” descritta da Trump e ricordando che gli Stati Uniti sono “già grandi”: “Non siamo fatti per essere asserviti. Il nostro potere deriva dalle dichiarazioni immortali trascritte per la prima volta qui a Philadelphia tanti anni fa”. Inevitabile, nella successiva citazione dei preamboli della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione, il contrasto tra “We the People” e “I alone” risuonato per bocca di Trump a Cleveland. Infine, un bilancio sugli otto anni di presidenza che suona come il “prouder, stronger, better” del 1984.

A fare un accorato appello ai repubblicani “autentici” ci ha poi pensato l’aspirante vicepresidente Tim Kaine, nel corso di un intervento in cui ha lanciato efficaci stilettate a Trump, ma rivelatosi per il resto abbastanza piatto.

Parlando del suocero ultranovantenne presente in sala, ex governatore repubblicano della Virginia, Kaine ha esclamato: “Lui [mio suocero] voterà democratico perché qualsiasi partito che ha nominato Donald Trump alla presidenza è ormai troppo distante dal partito di Lincoln. E vi dirò, se qualcuno sta cercando quel partito di Lincoln, abbiamo una casa per voi proprio qui nel partito democratico”.

Ovviamente, a chiudere in bellezza la Convention ci ha pensato Hillary Clinton, che nello storico discorso di accettazione della nomination pronunciato giovedì sera ha seguito la scìa di Obama e Biden, ricordando come il tycoon abbia trasformato il messaggio del GOP da “morning in America” in “midnight in America”.

L’intervento di Hillary, ancora una volta, batte sul tasto dei valori nazionali, citando la rivoluzione americana e l’avversione dei padri fondatori nei confronti della tirannide: “I nostri padri fondatori hanno abbracciato questa eterna verità: siamo più forti insieme. In America è ancora una volta il momento della resa dei conti. Forze potenti stanno minacciando di dividerci. I legami di fiducia e rispetto tra di noi si stanno spezzando. E proprio come i nostri padri fondatori, non abbiamo garanzie di successo. Ora tocca a noi. Dobbiamo decidere se lavorare tutti assieme per risorgere insieme. Il motto della nostra nazione è e pluribus unum, da molti uno. Resteremo fedeli a quel motto? Beh, abbiamo già sentito la risposta di Donald Trump al riguardo la settimana scorsa alla sua Convention. Lui vuole dividerci tra di noi e dal resto del mondo”.

Così come chi l’ha preceduta sul palco, la Clinton ha voluto dipingere Trump come la negazione assoluta di quello che gli USA rappresentano da sempre nell’immaginario collettivo, sia conservatore che progressista.

Insomma, una Convention che si era aperta con l’intento di unificare il partito democratico ha finito per lanciare un messaggio che oltrepassa le barriere dell’appartenenza politica, parlando al cuore del pubblico.

Ciò non è da solo sufficiente a dare una spinta decisiva a Hillary verso la Casa Bianca. La strada è ancora lunga e sottovalutare eccessivamente Trump (come già fatto più volte in questa campagna) potrebbe rivelarsi fatale, in un contesto in cui nessuno dei due candidati è particolarmente simpatico agli elettori.

Dobbiamo ancora capire se l’America è sempre quella “luccicante città sulla collina” o se invece è diventata qualcos’altro.

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Massimo Manzo

Massimo Manzo

Di madre americana e padre siculo, nasco tra le bellezze della Sicilia greca e gli echi del sogno americano. Innamorato della Storia, che respiro fin da bambino, trasferisco me e la mia passione a Roma. Qui, folgorato lungo la via, mi converto al giornalismo storico e di analisi geopolitica, “tradendo” così la laurea in legge nel frattempo conseguita. Appassionato di viaggi archeologici, oltre che della musica dei Beatles e dei campi da tennis, collaboro come giornalista freelance con più riviste di divulgazione, tra cui InStoria e Focus. Oggi mi divido tra la natia Sicilia e la città eterna, sempre coltivando l’amore per gli States.

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