Julian Assange non andrà negli Stati Uniti. È questa la decisione del giudice Vanessa Baraitser della Central Criminal Court di Londra, che ha negato l’estradizione per l’editore australiano fondatore del network on line Wikileaks rinchiuso nelle celle inglesi dall’aprile 2019.
In molti tirano un sospiro di sollievo. Sì perché se Assange fosse stato trasferito, andando nelle mani della giustizia USA, le cose per lui si sarebbero messe male. L’autorità americana lo cerca con un’accusa ben precisa: non quella di aver diffuso e distribuito a diverse testate giornalistiche i documenti segreti del Pentagono e del Dipartimento di Stato, ma per aver aiutato l’allora militare USA Bradley Edward Manning (poi diventata Chelsea Manning) a entrare nel sistema di sicurezza dei computer del Pentagono. La differenza tra le due cose è molto importante. Esiste infatti una sentenza della Corte Suprema secondo la quale non possa essere perseguito nessun giornalista o editore che renda pubblico un documento segreto del quale è entrato in possesso. È reato soltanto la sottrazione di quel documento, non la sua pubblicazione.
Ma andiamo con ordine. Per chi non la ricordasse, questa vicenda ha inizio nel lontano 2006. Assange crea un sito, WikiLeaks, del quale si definisce “editor in chief”. WikiLeaks è uno spazio interessante, che come motto ha la parola “freedom” e che negli anni pubblica documenti da fonti anonime e informazioni segrete. Sono storie scottanti, quelle che si leggono tra le pagine del portale. I bombardamenti in Yemen, la corruzione nel mondo arabo (la rivoluzione in Tunisia e la primavera araba dieci anni fa scoppia proprio dopo le rivelazioni di wikileaks), le esecuzioni extragiudiziarie da parte della polizia keniota, la rivolta in Cina del 2008. L’apice della popolarità lo raggiunge però nel 2010, quando fa uscire una serie di notizie fornite dal militare Manning. Si parla soprattutto di guerra, con il video Collateral Murder, i diari della guerra in Afghanistan e quelli della guerra in Iraq. La reazione degli USA non si fa attendere e, dopo la fuga di notizie, apre un’indagine su WikiLeaks.
Dopo un paio d’anni di processi e vicissitudini giudiziarie, nel 2012 Assange prova a tirarsi fuori dai problemi. Va all’ambasciata dell’Ecuador a Londra e chiede asilo politico in quanto perseguitato (intanto c’era stato pure un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti spiccato dalla Svezia per una supposta violenza sessuale). Il governo ecuadoregno, convinto che WikiLeaks potesse svelare anche comportamenti poco chiari degli States nei suoi confronti, accetta la richiesta. Per sette anni, fino all’aprile del 2019, Assange rimane all’ambasciata. Poi, alcune controversie con i nuovi rappresentanti dell’Ecuador fanno sì che all’improvviso la concessione di asilo politico venga tolta. Così, la polizia di Londra ha il permesso di entrare in ambasciata con un paio di manette e stringerle ai polsi di Assange. Dopo l’arresto viene condotto in carcere, nell’istituto di massima sicurezza HM Prison Belmarsh.
Gli Stati Uniti, però, non si accontentano. Vogliono che Assange sia trasferito in territorio americano e nel frattempo lo sommergono di accuse. Il 23 maggio 2019 è imputato di aver violato l’Espionage Act, una legge risalente addirittura al 1917. Oggi, in una Londra che si è vista con gli occhi dell’informazione puntati addosso, gli USA sono andati molto vicini a ottenere l’estradizione del loro nemico australiano. La giudice Vanessa Baraitser, parlando in tribunale, è partita forte, sostenendo che Assange fosse andato ben oltre i limiti di libertà di espressione concessi dal primo emendamento della Costituzione americana e che anzi fosse stato complice del furto di documenti ai danno del Pentagono. C’è un motivo, però, che l’ha fatta desistere dal verdetto che in molti si aspettavano. Assange, in caso di trasferimento, sarebbe infatti a rischio suicidio, perché le sue condizioni di salute mentale, a causa di una reclusione che va avanti dal 2012, sono precarie e non adatte al sistema carcerario americano.
Non si illudano coloro i quali pensano che con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, uomo che ai diritti umani sembra più interessato del predecessore, la situazione per Assange possa migliorare. È proprio il democratico, infatti, ad aver in passato etichettato il giornalista come “terrorista high-tech’’. Una definizione che di certo non lascia presagire nessun intento di apertura nei suoi confronti. Ora lo attende uno scenario incerto. Potrebbe essere liberato su cauzione, così come rimanere nel carcere di Belmarsh in attesa dell’esito del ricorso degli Stati Uniti.
Di certo non finirà qui, ma per tutti i sostenitori del diritto alla libertà di stampa, la non estradizione è già una bella vittoria.