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April 11, 2019
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L’arresto di Julian Assange e le ripercussioni sulla libertà d’informazione

Se non ci fossero prove di un ruolo del fondatore di Wikileaks nella sottrazione di documenti segreti, il suo arresto sarebbe un attacco al Primo Emendamento

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 3 mins read

Il fondatore e direttore di Wikileaks Julian Assange è stato arrestato questa mattina a Londra all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador, dopo che il governo di Quito gli aveva revocato l’asilo politico che dal 2012 gli concedeva dentro la sua sede diplomatica. Le autorità inglesi hanno arrestato Assange per un mandato di arresto internazionale emesso dalle autorità degli Stati Uniti con l’accusa di complicità nell’hackeraggio di documenti segreti. Secondo quello che si è venuto a sapere finora, il Dipartimento di Giustizia USA sosterrebbe di aver le prove necessarie che dimostrerebbero che Assange, prima di diffondere nel 2010 migliaia di documenti sottratti al Pentagono e anche al Dipartimento di Stato e riguardanti le guerre in Iraq e Afghanistan, avrebbe aiutato Chelsea Manning, allora analista d’intelligence dell’esercito americano, a penetrare i sistemi di sicurezza americani senza lasciar tracce della sua identità.

È molto importante capire l’accusa dell’autorità americana: Assange non è ricercato per aver diffuso tramite il sito di Wikileaks e distribuito a diverse testate giornalistiche del mondo i documenti segreti del Pentagono e del Dipartimento di Stato, ma perché avrebbe aiutato – praticamente indicandogli come fare – Manning a entrare nel sistema di sicurezza dei computer della difesa americana.

Se infatti l’accusa fosse stata basata sulla pubblicazione dei documenti segreti, il Dipartimento di Giustizia USA avrebbe platealmente violato il Primo Emendamento della Costituzione USA. Infatti, dopo una sentenza della Corte Suprema USA nel 1971 durante il caso dell’analista Daniel Ellsberg e della diffusione ai giornali dei famosi “Pentagon Papers”, è stato sentenziato dalla più alta Corte di giustizia americana che non solo il Governo non può censurare una testata giornalistica dal pubblicare qualsiasi documento segreto di cui è venuta in possesso, ma che l’editore e i giornalisti di tale pubblicazione non possono essere perseguiti se non hanno partecipato attivamente alla sottrazione di questi documenti. In sostanza, mentre Ellsberg o Manning erano colpevoli della loro azione e quindi perseguibili, non lo furono publisher e direttori del New York Times e del Washington Post di allora: in questo senso, si è pensato finora che anche Assange e Wikileaks, che hanno svolto nel 2010 la funzione di publisher, sarebbero rimasti immuni. Se invece Assange avesse indotto Manning all’azione di sottrazione dei documenti segreti e non fosse stato solo un ricevente, allora anche lo scudo di “publisher” di Assange potrebbe cadere.

A questo punto dobbiamo sperare che la Giustizia americana abbia raccolto veramente le incontestabile prove che Assange abbia direttamente “cospirato” con chi gli diede i documenti segreti americani che poi pubblicò sul suo sito di Wikileaks e distribuì ai maggiori giornali del mondo. Perché, se invece Washington queste prove non le avesse sicure o le avesse manipolate, starebbe calpestando lo stato di diritto assicurato dal Primo Emendamento della Costituzione che protegge in America così come all’estero i media dal poter pubblicare qualunque documento segreto USA venuto in loro possesso – lo ripetiamo, se non hanno avuto alcun ruolo nel sottrarre quel documenti –.

Assange ha un caratteraccio e non sta simpatico a molti operatori dei media: anzi, da molti è odiato dopo che è stato per alcuni versi determinante nella elezione di Donald Trump, quando, a poche settimane dalle elezioni presidenziali del 2016, diffuse le e-mail della campagna di Hillary Clinton che imbarazzavano non poco la candidata democratica e soprattutto il suo staff. Allora, Assange dichiarò che quei documenti gli erano stati consegnati e lui, da “publisher” di media, non faceva altro che diffonderli. Ma era chiaro che Wikileaks avesse a quel punto rinunciato alla sua “neutralità” e alla sua funzione di guardiano del diritto all’informazione e della trasparenza nei confronti di Governi che cercavano di occultare informazioni compromettenti sul loro operato, riguardo soprattutto al non rispetto di diritti umani: era anzi lampante che avesse buttato l’anima della sua organizzazione in favore di una parte politica contro un’altra. Solo più tardi, si venne a sapere che i documenti dei democratici distribuiti da Wikileaks arrivarono grazie all’azione di hackeraggio di russi guidati dal Cremlino, ma ancora non sarebbe stato provato un rapporto diretto tra Assange e la Russia.

Ma a questo punto, al netto dell’antipatia del personaggio, la sorte di Assange non dovrebbe importare solo a chi ancora ritiene la sua organizzazione utile alla diffusione di segreti compromettenti e alle battaglie per il rispetto dei diritti umani nel mondo. Dovrebbe soprattutto interessare a chi ha a cuore la libertà di informazione protetta dal Primo Emendamento della Costituzione USA, già da tempo sotto attacco dell’amministrazione Trump. Ripetiamo: che le accuse di “complicità” di Assange siano schiaccianti e chiare, altrimenti il suo arresto e processo sarebbe il campanello d’allarme più grave da mezzo secolo a questa parte in merito allo stato di salute della libera informazione negli USA.

 

Per un documentario che ricostruisce e analizza la storia di Wikileaks e del suo fondatore Julian Assange, quello prodotto da SVT, “WikiRebels”,  resta uno dei migliori:

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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