
Secondo l’UNESCO, un giornalista è stato ucciso ogni quattro giorni negli ultimi dieci anni; un totale di 912 omicidi. Inoltre, afferma il rapporto, i giornalisti che praticano l’autocensura in reazione a minacce diffuse avrebbe potuto spiegare il minor numero di vittime registrato nella prima metà del 2020.
Sebbene il 40 per cento delle uccisioni totali registrate in tutto il mondo nel 2019 siano state perpetrate in America Latina e dintorni, il maggior colpo alla democrazia statunitense è stato reso dall’attacco del presidente uscente alla stampa, definendola “nemico del popolo”.
Il primo martire del giornalismo americano è stato Elijah Parish Lovejoy, ministro presbiteriano ed editore di giornali che scrisse così appassionatamente contro la schiavitù che fu ucciso per questo nel 1837. Ad oggi sono 59 i giornalisti negli states uccisi. La Persona dell’anno – 2018 della rivista TIME era un insieme di quattro giornalisti e un’organizzazione di notizie. Da 2019 ad oggi il danno causato, sempre di più dai social e dai mass media d’establishment, evidenzia il crescente problema per la stampa libera. Sulla soglia del 2021 stiamo vivendo ancora la guerra alla verità.
Il libro di cui vi parliamo, L’abusivo di Antonio Franchini, nacque come memoir degli anni vissuti da praticante giornalista dell’autore e si sviluppa come riflessione su uno dei cronisti poco noti dell’epoca, Giancarlo Siani, ucciso per i suoi articoli sulla mafia napoletana di Torre Annunziata negli anni ‘80. Leggerlo oggi celebra la lotta alle forze che vorrebbero controllare l’informazione. Leggerlo permette di avvicinarsi sia al valore per noi tutti della stampa sana, sia a un’idea del pericolo che troppi giornalisti vivono tutt’oggi, facendo il loro mestiere, per noi.
Pubblicato da Marsilio nel 2001, e riproposto ora anche dalla Feltrinelli; perché questo libro su fatti accaduti nel 1985 non è del passato. Dimostra, come scrisse Faulkner, che il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato. Leggere L’abusivo ancora ci sembra un atto dovuto; considerare le sue profonde osservazioni, un incoraggiamento stimolante e necessario; un mezzo per prepararci a quello che si sta affrontando. Secondo il Committee to Protect Journalists, il numero di giornalisti uccisi è raddoppiato nel 2020. Fra i trenta giornalisti uccisi, 21 di loro sono stati ammazzati direttamente per il loro lavoro.

Se le faccio la fatidica domanda, riportata nel libro e rivolta a nostra volta ai lettori del 1981 nel territorio napoletano, come mi risponderebbe oggi? Per capirci: Giuvino’, a chi appartenete?
“Con il passare del tempo si spera di appartenere sempre a meno, ma è un processo di liberazione lungo e ha come fine il non appartenere più nemmeno a sé stessi. Non credo che ci riuscirò, diciamo che ci provo. Per scrivere, comunque, è meglio appartenere sempre a qualcosa: conferisce umanità alle parole”.
A quasi vent’anni della prima pubblicazione, il libro è stato riproposto a novembre di quest’anno. C’è un altro aspetto di questa materia che emerge per lei, a rivederlo oggi, che forse non aveva visto durante quel atto di scrittura precedente?
“Ho dichiarato spesso che non rileggo mai ciò che ho scritto, dopo averlo pubblicato. Rileggermi mi fa orrore esattamente perché ci sono sempre troppe cose che poi cambiano. Diciamo che uno dovrebbe mettersi a scrivere quando è ragionevole pensare che le cose che cambieranno saranno il meno possibile, cosa che ho fatto in molti casi e anche nell’Abusivo”.
Voi conoscenti e amici di Giancarlo Siani (GS) avete vissuto a vostra volta, un clima, se non propriamente violento come la sua fine, comunque percepito come oltremodo difficile all’epoca dei fatti?
“No, la camorra non ha mai ammazzato giornalisti prima di Siani e non l’ha fatto dopo”.
Ha mai riflettuto su questa storia che si ripete della guerra alla verità perpetrata nel mondo oggi, su scala notevolmente più palese, dalla Russia agli Stati Uniti, dal Medio Oriente all’America Latina? Ha qualche osservazione in merito?
“Non qualche osservazione, una serie. Diciamo, per brevità, che la risposta è già nella domanda. La ricerca della verità è ontologicamente complessa, lo è sempre stata, e per quanto si faccia resta un lavoro pieno di smagliature. Oggi però c’è una vera e propria “guerra alla verità” combattuta non opponendosi frontalmente alla ricerca ma annegandola in una valanga di menzogne, di alternative assurde, di sciocchezze e falsità”.

Ha incluso le testimonianze di molti colleghi dell’epoca e amici comuni di Giancarlo nonché di persone note del periodo per commentarlo, ampliando e arrotondando in modo prezioso il racconto con diversi punti di vista. È arrivato lei a vedere Siani in qualche modo diverso a causa di quei contributi su di lui?
“No, Giancarlo Siani era un ragazzo limpido, se si intende questo aggettivo nel suo senso più profondo e meno scontato. Le testimonianze per me hanno potuto aggiungere dettagli che non conoscevo ma non hanno modificato l’idea che avevo di lui, anzi, l’hanno sempre confermata”.
Le vignette familiari, creando degli interstizi della narrazione sulla storia di Siani, sono alquanto dinamiche e coinvolgenti. In qualità di autore di questo lavoro specifico, qual era lo scopo e l’effetto che desiderava includerli, così diverse apparentemente sono dal filo conduttore del resto della storia?
“Servivano a dimostrare che la camorra non è solo un fenomeno delinquenziale esterno alla società meridionale, ma che la permea nel profondo, nella borghesia come nel popolo, nelle famiglie dove non c’è rispetto, senso civico, collaborazione, ma istinto di sopraffazione, violenza repressa, ricerca di scorciatoie, corruzione morale. Volevo significare, non dicendolo apertamente, perché affermarlo in generale non si può, evidentemente, ma facendolo venir fuori dalle scene quotidiane, dai proverbi, dal modo di pensare, che la famiglia meridionale può essere intrinsecamente camorrista, anche se non pensa affatto di esserlo. Almeno, così era la mia famiglia”.
C’è un passaggio potente che lei riporta nel libro, tra i commenti di Pietro Gargano, giornalista del Mattino dal 1963 sull’atteggiamento dei vari conoscenti di Giancarlo Siani:
“Dopo, nessuno dei veri amici di Giancarlo ha continuato a lungo a fare cronaca nera…E nessuno di loro era un vigliacco, anzi. C’è stato uno sconcerto mai esplorato fino in fondo, assai intricato…[ne] hanno parlato poco e malvolentieri. Ed è atteggiamento ben diverso e più profondo dell’ipocrisia di qualche altro, di chi definiva imprudenza l’elementare dovere di un cronista, forse anche perché imbarazzato dalla condizione professionale di Giancarlo, un abusivo ucciso sul fronte della cronaca.”
Lei ha scritto: “Giancarlo Siani è morto per aver scritto.” … “Sarebbe il primo caso in cui la camorra uccide non chi la minaccia concretamente, ma chi le rivolge un’accusa «etica».” E Siani non era nemmeno stato assunto regolarmente, pienamente.
Dimostra che Siani aveva passione, determinazione; un’autentica vocazione. Dimostra che anche con tutto questo, si potrebbe non essere assunto. Ma si può essere uccisi. Ha un’osservazione in merito?
“Nessuna oltre quella implicita in tutto il libro e che lei ha perfettamente riassunto nella formula “Per le cose che ha scritto Siani poteva essere ucciso ma non assunto”.

Cronista, pubblicista, giornalista, praticante d’ufficio, professionista, abusivo, tutti termini per i vari gradi di occupazione / disoccupazione / sottoccupazione che esistevano all’epoca, prima di quella attuale dell’occupazione perennemente part-time: il peggio tra tutte queste qualifiche d’impiego. Non da esperto sul lavoro ma semplicemente da persona che avrà vissute queste condizioni nella sua storia individuale, le chiedo ‘stavamo meglio quando eravamo peggio’? Oppure c’è stata qualche evoluzione di buono che lei nota in questi anni?
“Guardi, non mi faccia rispondere in breve a una domanda così complessa. Ai nostri tempi fare il giornalista era una professione ambita, diciamo pure privilegiata. Un giornalista guadagnava molto bene e godeva di un grande prestigio sociale, quindi la professione godeva di tutta una serie di protezioni corporative. Quel mondo di privilegio non esiste più perché il mondo dell’informazione è cambiato radicalmente e l’informazione cartacea quasi non esiste più. È un bene? È un male? Certo qualcosa si è perso, i grandi inviati hanno anche fatto la storia della letteratura di questo paese. E oggi c’è meno controllo sulle notizie, c’è meno professionalità, c’è più sfruttamento. Non c’è più il privilegio ma c’è lo sfruttamento. In generale, l’umanità non migliora”.
Troppe volte, delle ovvietà inosservate ci scorrono addosso, per definizione senza che ce ne accorgiamo. L’abusivismo che la gioventù meridionale è stata costretta ad accettare nel campo dell’occupazione; l’arroganza dei membri della criminalità organizzata apertamente perpetrata nella quotidianità; le soffocanti burocrazie degli enti pubblici e dei sindacati per le allacci sociali più necessari e basilari per chiunque. Percepisce oggi un diverso atteggiamento da parte della gioventù e delle persone adulte verso queste difficoltà?
“Temo che non sia cambiato molto”.
Nel 2019, sono dieci i reporter uccisi rispettivamente in Messico e in Siria; poi le firme meglio conosciute, come Jamal Khashoggi (m. 2018), Daphne Caruana Galizia di Malta (m. 2017) e, ancora, il nostro connazionale, il ricercatore universitario Giulio Regeni (m. 2016). Nel lontano 2006, l’uccisione di Anna Politkovskaja a Mosca ha reclamata tanta attenzione. Per chi del pubblico si ricorda il film dello stesso 2006, Fortapàsc, la figura di Giancarlo Siani è stata portata all’attenzione di un pubblico più ampio. Senza pretendere che lei sia un esperto in materia, le chiedo se abbia seguito il giornalismo in pericolo nel mondo in questi anni martellanti per la stampa libera e, ovviamente collegabile alle sue prime esperienze professionali così tracciate nel libro, se ne avrebbe qualche osservazione al riguardo?
“Sì, l’ho seguito. Grazie anche al lavoro del mio amico Roberto Saviano. Sono l’editore di Gridalo, il suo ultimo libro che racconta quasi tutti i casi che lei ha citato. Sono orgoglioso di averlo pubblicato e di diffonderlo. Il sangue dei martiri deve servire a qualcosa, ai giovani e al mondo per cercare di essere meno peggio”.

C’è un’osservazione forte verso la fine del libro – il giudizio dell’anonimato – che da autore lei ammette avrebbe avuto molti problemi anche solo a riportare se non fosse stato espresso da una persona che conosce il caso Siani alla perfezione in tutti i suoi risvolti. Quello dove scrive: ”Mi sono convinto che quel ragazzo è morto perché aveva la morte nel suo DNA…perché chi cerca la verità come la cercava lui in questo mondo non può che trovare la morte. Lo dico con ammirazione. Chi cerca la verità lotta contro i malvagi e combatte anche contro i buoni, perché i buoni non lo sono tutti allo stesso modo, ci sono i buoni attivi e i buoni…in difesa, i buoni che si limitano a osservare e in qualche modo giustificano la loro passività dando dell’esibizionista al buono che si attiva…come e normale che succeda…ma la morte era scritta nel suo codice genetico. Lo dico con ammirazione”. Ragionamento sublime. E qui siamo alla storia della figura del Cristo, di Odisseo, di Martin Luther King, del Giudice Falcone, dell’eroe – come scrive lei, che – non sa di esserlo. Chi è davvero vivo deve per forza aver a che fare con delle forze malefiche contro. E allora, avendo lei seguito questa storia nei dettagli e indagato nella sua essenza, le chiedo: che fare?
“Non tacere, gridare, testimoniare”.
Il concetto della musica blues sta nel sapere che “Ora stiamo messi veramente male. Ma domani sarà migliore.” Ha un blues personale che le permette di farcela?
“Preoccupati di agire, non delle conseguenze dell’azione. Tanto, il mondo, per migliorare, non migliora”.
Autore: Antonio Franchini
Editore: Marsilio 2001 / Feltrinelli 2020