Per Hatice Cengiz, ricordare il 2 ottobre 2018 è un esercizio difficile e doloroso. Quel giorno, il suo fidanzato Jamal Khashoggi, giornalista saudita del “Washington Post” residente negli USA, si recò al Consolato del suo Paese a Istanbul per ritirare alcuni documenti necessari per il loro matrimonio. Da quell’edificio, il reporter non è mai uscito vivo. “Non avevo idea che la mia vita sarebbe del tutto cambiata. Quel giorno è stato l’inizio di un periodo molto doloroso e triste”, racconta la ricercatrice turca, giunta a New York con l’organizzazione “No Peace Without Justice” per partecipare a un evento sui diritti umani al Palazzo di Vetro introdotto dalla senatrice Emma Bonino. La incontriamo in un hotel di Manhattan a Midtown, poco lontano dalle Nazioni Unite, che negli scorsi giorni hanno ospitato i leader mondiali riuniti per l’Assemblea Generale. Un velo color porpora le incornicia lo sguardo, che quando parla di Jamal le si vela di commozione.

Il mondo, di lui, ha conosciuto la sua immagine pubblica: innanzitutto, il suo lavoro da giornalista particolarmente critico nei confronti del principe ereditario Mohammad bin Salman e del re Salman, al punto da imporsi un auto-esilio nel 2017. Per lei, però, Jamal era molto di più: era tutto. “Mi manca come amico, come marito, talvolta anche come fratello e come padre. L’ho conosciuto in occasione di una conferenza. All’inizio non pensavo potesse nascere qualcosa tra di noi; poi, le cose sono cambiate”. Nei giorni immediatamente precedenti all’appuntamento in Consolato che gli è stato fatale, il giornalista non sospettava che la sua vita fosse in pericolo. Si era già recato presso la stessa sede diplomatica poco tempo prima, il 28 settembre, e aveva ricevuto una calda accoglienza. “Era preoccupato al pensiero di presentarsi al primo appuntamento. Ovviamente, abbiamo considerato tutte le possibilità, anche lo scenario peggiore”. Ma quel giorno, i funzionari “gli hanno chiesto come stava, gli hanno offerto caffè e tè, si sono congratulati per il matrimonio, hanno parlato con lui per circa mezz’ora. Così, Jamal si è rasserenato, e ha programmato di tornare lì pochi giorni dopo per ultimare le procedure burocratiche”. Secondo Hatice, il suo assassinio dev’essere stato pianificato proprio tra quei due appuntamenti. Lei, però, non teme per la sua vita. “Non ho paura”, ripete, “Perché dovrei averne?”. “Ero più preoccupata”, confessa poi, “nei giorni successivi all’assassinio”. Temeva, in particolare, per le informazioni e gli effetti personali del suo fidanzato: “La settimana successiva, ho consegnato tutto nelle mani del Governo turco”.

Qualche ora prima di questa conversazione, i giornali di tutto il mondo riportavano la dichiarazione del principe Salman sul caso Khashoggi: “Mi assumo tutta la responsabilità, perché è accaduto sotto il mio controllo”, ha dichiarato in un’intervista a PBS. Assunzione di responsabilità puramente “ufficiale”, spiega Cengiz, attraverso la quale il principe “rafforza la propria legittimità” come vero capo del Governo, e contemporaneamente sottintende “che non sapeva nulla di quanto stava accadendo”. Versione, questa, decisamente in contraddizione con il contenuto del rapporto ONU firmato dalla relatrice speciale Agnes Callamard, che mette nero su bianco le “credibili evidenze” del coinvolgimento del Principe ereditario. Eppure, quando le si chiede che idea si sia fatta in proposito, la ricercatrice turca sembra non avere una risposta: “Non lo so, davvero”.
Nessuno, dall’Arabia Saudita, ha mai cercato di mettersi in contatto con lei. Né membri del Governo, e “neppure giornalisti”. Ma anche se ci avessero provato, assicura risoluta, “non avrei parlato con loro”. “Il Governo turco ha posto delle domande a cui non è mai stata data risposta”. Un invito “illustre”, invece, le è arrivato: poco tempo dopo l’uccisione di Jamal, il presidente Donald Trump in persona le ha proposto un incontro alla Casa Bianca. Lo stesso giorno, Hatice ha ricevuto una telefonata da parte del Segretario di Stato Mike Pompeo. Un invito che la ricercatrice ha deciso di declinare. “Gli Stati Uniti? Non hanno fatto nulla per risolvere il caso. Gli USA hanno una grande responsabilità, non tanto verso di me, quanto verso il mondo intero. Stiamo parlando dell’assassinio di un giornalista che era residente in America”. Trump, in effetti, ha fatto capire pubblicamente che la sua priorità è quella di preservare le relazioni economiche con l’Arabia Saudita. E questa “assenza di reazione”, spiega lei, “ha sicuramente danneggiato l’immagine degli Stati Uniti come principali difensori dei diritti umani”.
Gli USA, però, per Hatice non sono gli unici a non aver fatto abbastanza. Anche gli altri membri del Consiglio di Sicurezza ONU, a suo avviso, avrebbero dovuto agire diversamente. “Cos’altro deve accadere”, si è domandata intervenendo in serata all’evento di “No Peace Without Justice”, “perché chiediate l’inizio di un’indagine internazionale?”. Critico, anche, il giudizio nei confronti dell’Italia. “In qualità di membro dell’Unione Europea, penso che avrebbe dovuto adottare un atteggiamento più chiaro. Non sto parlando di punire l’Arabia Saudita o il suo popolo. Chiedo che vengano puniti i responsabili. L’Italia e altri Stati membri avrebbero potuto condannare pubblicamente l’Arabia Saudita o rilasciare una dichiarazione in tal senso. Oppure, avrebbe potuto invitare l’Arabia Saudita a rilasciare una dichiarazione ufficiale su quanto accaduto, almeno”.
La fidanzata di Khashoggi ha sentito parlare della vicenda di Giulio Regeni, ma non ne conosce i dettagli. E quando chiede, ripetutamente, perché il ricercatore italiano sia stato ucciso in Egitto, è Bonino, presente a parte di questa conversazione, a illustrarle la battaglia, che l’Italia non ha ancora vinto, per ottenere verità e giustizia. Una battaglia così simile a quella che Hatice stessa sta combattendo: “Quello di Jamal è un caso molto politico”, afferma dopo aver ascoltato di Regeni. “Si può immaginare facilmente il perché sia stato ucciso”.
A suo avviso, il suo Paese, la Turchia, ha gestito bene la situazione. Lei stessa ha avuto modo di parlare con il presidente Tayyp Recep Erdogan, che, afferma, “ha prestato molta attenzione a questo caso”. Dalla stampa internazionale, poi, ha ricevuto tanti attestati di solidarietà: “Sono rimasta stupita dalla portata della reazione a cui ho assistito: per diverso tempo dopo il 2 ottobre, la vicenda di Jamal è rimasta su tante prime pagine. Il suo assassinio ha scosso il mondo intero. Io stessa sono stata contattata da diversi giornalisti che lo avevano conosciuto”. L’attenzione dei media, tuttavia, non è abbastanza: “Serve anche collaborazione da parte del potere politico per fare chiarezza”.

Su una cosa, però, Cengiz si mostra positiva. Il “sacrificio” del suo Jamal, dice, sta cominciando a mostrare qualche effetto positivo in termini di libertà di stampa in Arabia Saudita. Dopo il suo assassinio, infatti, “l’Amministrazione ha cominciato a rilasciare molto velocemente alcuni intellettuali e giornalisti, a cui perlomeno è stata data la possibilità di essere sentiti in tribunale. Ora il Governo sa che nulla può più rimanere nascosto dietro a una porta chiusa”. E questo, in un certo senso, era anche “l’obiettivo di Jamal quando era in vita. Vedremo quali saranno gli effetti su altri Paesi del Medio Oriente nel medio-lungo periodo”. Certo: “Nulla potrà mai compensare il dolore della sua perdita”. Un dolore impresso nello sguardo colmo di dignità di questa giovane donna, che trascorrerà il primo anniversario dalla morte del suo fidanzato a commemorarlo insieme a colleghi e amici di lui davanti al Consolato saudita a Istanbul. L’evento, peraltro, sarà accompagnato da manifestazioni simili che si terranno in tanti altri Paesi. Solo pochi giorni separano Hatice da quella ricorrenza, così dolorosa e significativa insieme, e lei, con sguardo fermo, non ha paura di fare una promessa: “Manderemo un messaggio potente al mondo intero”.
Discussion about this post