Da giorni si avverte a Pechino un rischio imminente: un delisting delle società cinesi dalla borsa di Wall Street. Se a questa fortissima preoccupazione si aggiungono anche le tremende tensioni geopolitiche dovute alla guerra in Ucraina e, come se non bastasse, la presunta richiesta della Russia alla Cina di attrezzature militari secondo le non ancora documentate affermazioni di un funzionario statunitense, il quadro si fa molto complesso e, allo stesso tempo, assai pericoloso.
Proprio ieri, infatti, a Roma il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, ha incontrato il collega Yang Jiechi a cui ha ufficialmente comunicato che le conseguenze, se Pechino intendesse aiutare la Russia per aggirare le sanzioni imposte dall’Occidente, costerebbero molto care.
Nel frattempo, il primo campanello d’allarme è scoppiato ieri a New York: un Black Monday per le borse cinesi in quello che è risultato essere il sell-off più duro dal lontano 2008, dove l’indice Hang Seng di Hong Kong ha chiuso in ribasso del 5% e Shanghai del 2,6%. Il titolo che ha avuto il peggior risultato è stato il Country Garden del settore immobiliare, che ha perso quasi il 22% insieme ad un andamento molto critico del settore tecnologico.
La Banca popolare cinese, PboC, secondo i dati diffusi ha comunicato che ad inizio anno si è verificato un fortissimo calo dei prestiti dovuto anche alla picchiata delle vendite di nuove case pari a circa il -40%.
Hang Seng Volatility Index tops 40 for the first time since market meltdown in March/April 2020 market meltdown pic.twitter.com/U1tBYlYWH3
— David Ingles (@DavidInglesTV) March 15, 2022
Nell’ipotesi che Pechino decida di aiutare Mosca, come ha fortemente ricordato a Roma il consigliere Sullivan, l’Exchange Commission statunitense ha stilato già una prima lista di azioni cinesi nell’ambito di una stretta sulle società che si sono rifiutate di aprire i libri contabili alle autorità di regolamentazione statunitensi, accrescendo i rischi di un delisting anche nel breve periodo. La citata Commissione è l’organo federale statunitense di vigilanza dei mercati di borsa, creata nel 1934, ed i cui poteri sono stati ridefiniti e di molto potenziati nel 2002 con l’emanazione del Sarbanes-Oxley Act.
Se a ciò si aggiunge che anche lo yuan onshore (scambiato nel Paese) è sceso al livello più basso dell’ultimo mese, la cosa indica un certo inasprimento del sentiment finanziario verso Pechino – mentre la versione offshore del Renminbi, ideata nel 2009 dal Governo cinese come progetto pilota per promuovere l’utilizzo dello yuan anche negli scambi commerciali internazionali (altrimenti Pechino sarebbe rimasta tagliata fuori dalla globalizzazione commerciale ed industriale), fa molta fatica a reggere le turbolenze dei mercati.
“Continuiamo a sopravvalutare la Cina basandoci sulla crescita degli obiettivi grazie ad una politica di allentamento, valutazioni e sentiment depressi e a un contenuto posizionamento degli investitori”, ha sancito Goldman Sachs, che ha tagliato, però, la valutazione del p/e atteso a 12 mesi da 14,5 a 12 volte per i rischi di natura geopolitica. Il p/e indica quante volte il prezzo dell’azione incorpora gli utili attesi, e quindi quante volte l’utile di una società è contenuto nel valore che il mercato le attribuisce. Quanto più il p/e è alto, tanto maggiori sono le aspettative degli investitori sulla crescita della società.
Da Versailles l’UE, nella fastosa residenza reale francese, si accingeva ancora una volta a sparare a salve verso la Russia. Biden, invece, a Washington decideva di alzare ancora di più il tiro. Infatti, dopo aver minacciato di revocare i privilegi commerciali per Mosca, rendeva nota l’imposizione di dazi su vodka, caviale e diamanti.
E, nell’assordante silenzio mediatico, il capo negoziatore russo a Vienna per la chiusura dell’accordo sul nucleare iraniano, Michail Uljanov, ha fatto saltare il banco della trattativa giunta a un centimetro dalla chiusura. Infatti, furbescamente, ha presentato la richiesta di inserire nel documento finale la garanzia scritta che le sanzioni Usa contro la Russia non divenissero impedimento per il commercio, gli investimenti, la cooperazione economica e militare fra Mosca e Teheran.
Se lo stallo dovesse perdurare, a seguito di questa iniziativa, verrebbero al pettine grossi nodi come quello che consentirebbe all’Iran di proseguire la sua operazione di arricchimento dell’uranio – la qual cosa porterebbe USA ed Israele a rimettere in cima alla propria agenda un capitolo di crisi che ritenevano, ormai, di aver risolto. Tutto ciò nel pieno della guerra in Ucraina e con il forte rischio che un inasprimento ulteriore delle sanzioni contro l’Iran possa essere interpretato come un ulteriore atto aggressivo verso la Cina, che ha grandi interessi commerciali e militari con gli Ayatollah.