“L’Unione europea rappresenta di base soltanto un mezzo per raggiungere gli obiettivi della Germania. Perciò ho trovato così intelligente che la Gran Bretagna sia uscita”. Queste le parole pronunciate meno di un mese fa da Donald Trump al Financial Times, proprio mentre l’UE chiedeva all’Italia una “manovra aggiuntiva” di 3,4 miliardi.
Le frasi del presidente hanno naturalmente fatto gridare allo scandalo tutti i maggiori giornali del vecchio continente, che hanno dipinto Trump come un bullo brutto sporco e cattivo e la povera Angela Merkel come una vittima.
Ma dietro quello che i media hanno definito semplicisticamente come un “attacco all’Europa”, ci sono in realtà motivazioni economiche fondate. Dopo anni in cui le élite europee hanno tentato ipocritamente di nascondere i veri motivi che stanno dietro la disastrosa situazione economica del continente, finalmente si è rotto il muro del silenzio.
A precisare in termini più chiari le dure affermazioni del nuovo leader della Casa Bianca ci aveva già pensato il suo consigliere economico, Peter Navarro, secondo cui Berlino “continua a sfruttare gli altri stati all’interno dell’Unione Europea e gli Stati Uniti con un ‘marco mascherato’ fortemente svalutato” mettendo l’accento sullo “sbilanciamento strutturale tedesco nel commercio con i partner dell’UE e con gli USA”.
Basta guardare i numeri per confermare le parole di Navarro: stando alle cifre rilasciate dall’istituto economico tedesco IFO, nel 2016 la Germania ha avuto un surplus commerciale pari a 297 miliardi di dollari, superiore persino a quello cinese. In altri termini, grazie al sistema di cambio fisso su cui si fonda l’euro, Berlino si ritrova una moneta svalutata con cui è diventato il primo paese esportatore del mondo, superando la Cina e falsando la concorrenza con i propri partner commerciali.
Come notano da tempo i più lucidi economisti, per competere, non potendo più aggiustare il cambio, gli altri stati europei sono costretti invece a comprimere i salari, e ciò ha significato il crollo della domanda interna europea (e tedesca), rendendo la continua crisi in cui versa l’eurozona il principale ostacolo alla crescita mondiale.
Insomma, la Germania è un paese creditore che basa tutta la propria economia sulle esportazioni facendo concorrenza sleale e rifiutandosi ostinatamente di correggere tale squilibrio attraverso una politica di trasferimenti fiscali verso gli altri paesi dell’eurozona. Non bastasse, Berlino è la principale sponsor delle politiche di austerity, che stanno devastando le economie dei paesi del sud. Altro che “cooperazione europea”.
Dall’altra parte, gli USA sono al contrario un paese debitore, il quale subisce da tempo sul proprio sistema industriale le conseguenze negative delle politiche aggressive portate avanti dai governi tedeschi.
Già nell’aprile 2016 (cioè ben prima dell’elezione di Trump), il Dipartimento del Tesoro americano stilò un documento nel quale elencava gli stati responsabili di portare avanti politiche commerciali aggressive e pericolose per la stabilità del sistema, indicando nella Germania uno dei principali.
Alla luce di tutto ciò, per una volta le affermazioni del nuovo presidente (criticabile per mille altri motivi) hanno centrato in pieno il problema.
Più in generale, è appena iniziato un braccio di ferro economico tra Berlino e Washington, che probabilmente porterà a una “guerra commerciale” e a una prossima svalutazione competitiva del dollaro. Di fronte alle giuste lamentele dell’amministrazione americana, è difficile che alla fine la Germania non si pieghi.
A differenza di ciò che è avvenuto con altri paesi debitori, come la Grecia, nei confronti dei quali è stata messa in campo per tramite delle istituzioni europee una politica di austerità che ha affamato un intero popolo, questa volta Berlino trema, ma rischia per le sue colpe di scaraventare con sé nel baratro l‘intera costruzione europea. E non sarebbe una novità: è già accaduto un paio di volte negli ultimi 100 anni.
A proposito di Grecia, pochi giorni fa persino il Fondo Monetario Internazionale ha ammesso che gli obiettivi imposti dalla Troika ad Atene sono “irrealistici” e hanno penalizzato l’economia ellenica, suggerendo un futuro taglio del debito. Presto, possiamo scommetterci, scoppierà l’ennesima “crisi greca”, alla quale l’Europa risponderà con le solite politiche crudeli e inefficaci.
Sull’argomento, proprio venerdì scorso Ted Malloch, ambasciatore designato dalla nuova amministrazione USA all’Unione Europea e odiatissimo dai pezzi grossi di Bruxelles, ha annunciato una probabile futura uscita della Grecia dall’euro, ammonendo sulla necessità di gestire un eventuale periodo di transizione evitando che il paese cada nel caos.
Insomma, dopo decenni in cui i migliori economisti, tra cui i premi nobel Krugman e Stiglitz, descrivevano le mille falle della costruzione monetaria europea e la sua palese insostenibilità, ora i nodi vengono finalmente al pettine.
La moneta unica, che doveva rappresentare nella mente degli ideatori il principale veicolo dell’integrazione europea, si sta invece rivelando la tomba dell’Europa, e sotto il suo peso sta crollando l’intera impalcatura dell’Unione.
Sullo sfondo, invece di prepararsi al peggio cambiando radicalmente rotta, i partiti “responsabili” dei maggiori paesi europei continuano a negare la realtà consegnando le loro opinioni pubbliche ai partiti dell’estrema destra, che raccolgono consensi sempre maggiori in tutto il continente.
Uno scenario che rischia presto di degenerare, trascinando l’intera Europa nel caos.