E’ quasi mezzogiorno a Catania quando, lunedi 6 febbraio i fedeli accompagnano nella Cattedrale, l’ingresso del fercolo della Santa patrona, preparandosi al saluto tra sbadigli, lacrime, stanchezza ma anche molta commozione per quella che è la terza festa Cristiana più importante al mondo per numero di visitatori, dopo quella del Corpus Domini di Cuzco in Perù e la Semana Santa di Siviglia.
Le celebrazioni in onore di Santa Agata vanno oltre la dimensione religiosa per sfociare nel folclore, nell’etnoantropologia, nel mito.
Il mito finisce quando inizia la storia religiosa. E quest’ultima si identifica con la storia e la dimensione popolare di una città, Catania, che a Sant’Agata dedica se stessa.
Appena quindicenne Agata, che apparteneva ad una nobile famiglia catanese, decide di consacrarsi a Dio.
Siamo nel 235, e il proconsole Quinziano , rifiutato dalla giovane Agata, decide di chiuderla in carcere, sottoponendola a numerose torture, tra le quali l’asportazione della mammella.
Una storia che si intreccia con numerose leggende. Come quella che racconta di Agata, la quale condotta a processo, si fermò per allacciarsi un calzare.
In quel momento pare che un olivo selvatico comparve dal nulla, generando frutti che dopo il martirio vennero distribuiti ai malati come farmaco miracoloso.
Sono le olivette di Sant’Agata, questo dolce di pasta di mandorla colorata che diventa il simbolo di una festa che celebra anche con i dolci la sua santa.
Ancora un altro simbolo lega leggenda, mito e gastronomia.
Morbide, delicate, con una base di pan di Spagna ammorbidito da una bagna di rosolio, ripiene di ricotta e scaglie di cioccolato amaro e coperte da una glassa candida e una ciliegia candita rossa, le cassatelle di Sant’Agata, meglio come conosciute come le minnuzze, ricordano l’estrema tortura subita dalla santa nel momento in cui le furono strappati i seni con una grossa tenaglia. Un dolce simbolo, il cui rito nella preparazione viene elegantemente raccontato nel romanzo dell’autrice siciliana Giuseppina Torregrossa nel suo Il conto delle minne.
Ed è qui che inizia il mito che collega il culto di Agata, Aituzza come la chiamano affettuosamente i catanesi, alla dea Iside il cui culto era molto sentito a Catania in età pre-cristiana.
Molti gli elementi in comune tra i due: le lunghe processioni, gli abiti dei fedeli, la celebrazione verso la metà di Agosto. Le giovani mamme offrivano alla dea Iside come ex voto “seni di argilla”.
Una festa piena di simbolisimi, colore, folclore, sapori.
La festa di Sant’Agata come la livella di Totò mette insieme in un’ unica accorata folla, le classi sociali di Catania.
Che si mescolano, diventano il serpentone umano che tira il fercolo, e si uniscono al grido sofferto e devoto di “Cittadini, siamo tutti devoti tutti”.
Un mantra con cui la città rende voto e devozione a Picciridda, trasformandosi in un caledoiscopica giostra dove venditori di panini con carne e torronari si uniscono a venditori di bevande, zucchero filato, ceri, candele e candelore. Chiedono grazia, ringraziano per la grazia ricevuta, offrono ceri e voti ad Agata, protettrice delle donne con il tumore al seno e patrona dei fonditori di campane. A lei, femmina ribelle e femminista ante litteram dedicano estrema devozione e sacrificio.
Sullo sfondo, il fiume di devoti che si stende come un lenzuolo bianco per le vie del centro.
Uomini, donne e bambini, indossano un saio bianco, una sorta di sacco, e in testa una papalina nera di velluto che in siciliano si chiama “scuzzetta” , guanti neri, agitano un fazzoletto e un cordone bianco.
Miti e leggende , credenze popolari che convivono.
C’è chi sostiene, che il bianco del sacco faccia riferimento alla tunica Bianca dei sacerdoti della Dea Iside , altri invece pensano che sia la “camicia da notte” che i catanesi indossavano la notte del 17 agosto del 1126 quando le Reliquie di S. Agata fecero ritorno sul suolo catanese dopo il lungo esilio. Per la Chiesa, è un “saio penitenziale”, il cui colore bianco, indice di purezza, ben si accoppia al berretto scuro che invece rappresenta il capo cosparso di cenere in segno di sottomissione e umiltà.
Anche gli altri elementi sono ricchi di un forte valore simbolico: i guanti bianchi sono un segno di rispetto per la purezza di Sant’Agata, mentre il cordone rappresenta la castita’ e il fazzoletto bianco l’esultanza.
Una città che durante i riti agatini, dal 1 al 5 febbraio, si unisce e si identifica in quel busto prezioso e splendente portato in giro per la città giorno e notte.
Un vero e proprio capolavoro dell’arte orafa, il busto reliquario è stato realizzato dall’orafo senese Giovanni di Bartolo rivestito da una fitta maglia, su cui sono stati posti i gioielli, che nel corso dei secoli, i devoti hanno donato alla Santa. Come la corona d’oro che pare sia stata omaggiata da Riccardo Cuor di Leone, l’anello papale del XIII secolo, la croce di smeraldi e brillanti, che Monsignor Ventimiglia ha lasciato per testamento alla Santa.
Fede dicevamo e tradizione popolare.
Che inizia due giorni prima, con la tradizionale sfilata delle candelore, dodici cerei votivi in legno ciascuno dei qali rappresentano una congregazione di arti e mestieri.
Sfilano per la città a ritmo di musica brasiliana, siciliana, portati a spalla da uomini che si annacano, cosí i siciliani descrivono il movimento ondulante.
Un crescendo ricco di pathos, che culmina nelle processioni per le vie del centro catanese, il 4 e del 5febbraio, il canto all’alba che le suore benedettine dedicano alla Santa, i fuochi d’artificio del 5 sera, il ritorno di Agata in cattedrale il 6 febbraio. Quando la città e i fedeli, commossi, la salutano con affetto dandole appuntamento al 17 agosto, altra celebrazione agatina memoria del ritorno delle reliquie trafugate dai bizantini.
Sant’Agata e Catania, una città che riconosce profonda devozione, rispetto per Aiutuzza, la giovane martire che pare risparmiò con un miracolo, un anno dopo la sua morte, il capoluogo etneo dalla colata lavica e ancora Catania dalla peste.
Mito, leggenda, credo religioso e popolare si fondono in un unico grande quadro intimo e corale allo stesso tempo che è diventato patrimonio antropologico.
E l’uomo ritrova se stesso nelle pulsioni e nelle tradizioni, nei canti, nei cunti e nelle credenze.
Nello spirtito religioso che religioso non è più quando si fonda con il mito e l’antropologia, il folclore e il bisogno di cercare un’identità che diventa conforto.