A due mesi di distanza dall’insediamento al potere di Donald Trump, nessuna delle direttive interne ed esterne della sua amministrazione ha ancora preso forma, e quali siano le intenzioni dell’amministrazione stessa non è ancora chiaro. Non perché nessuno, Trump o i suoi collaboratori, non ne abbiano parlato; anzi hanno detto già tutto. Il problema è che hanno anche detto il contrario di tutto. E il poco che hanno fatto concretamente o si è arrestato o è tornato indietro. Di conseguenza i moltissimi interessati in ogni parte del mondo a capire che che cosa farà il misterioso palazzinaro newyorkese per far “ritornare grande”, come ha promesso, l’America sono ancora insoddisfatti.
Nell’attesa, possono cercare di farsene qualche idea attraverso gli orientamenti dei collaboratori più stretti del presidente americano, per esempio quelli del suo “consigliere strategico” Stephen Bannon, ritenuto il personaggio più influente della sua cerchia; una specie di eminenza grigia. Oppure seguendo le vicende di un’inchiesta giudiziaria che, sempre rimandata, è ormai divenuta inevitabile: quella sulla reale profondità delle interferenze russe nella campagna elettorale che ha portato Trump al potere.
I relativi sospetti sono già costati il posto a uno degli altri intimi di Trump, il generale Michael Flynn, già Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca; essi minacciano ora la posizione di un altro dei sostegni essenziali di Trump all’interno del Partito Repubblicano, l’”attorney general” (ministro della giustizia) Jefferson B. Sessions, già senatore dell’Alabama, il quale si trova ora lui stesso, a sole tre settimane dal suo insediamento in carica, ad essere uno degli oggetti dell’inchiesta in preparazione.
Occorre non dimenticare che la sopravvivenza al potere dello stesso Trump dipende dal partito che lo ha eletto, il Repubblicano, e che mentre questo dispone di un’abbondante maggioranza in Congresso (arbitro ultimo della legittimità del potere esecutivo) esistono in esso forti linee di frattura interne. Se le vicissitudini in corso dovessero causare la coalizione di gruppi del partito con il partito (Democratico) di minoranza, la sorte del presidente Trump attraverso un procedimento di destituzione (‘impeachment’) potrebbe essere segnata.
Venendo al “Consigliere per la Strategia” Bannon, più sopra qualificato di “eminenza grigia”, va precisato che questo grigiore non va inteso nel senso che il personaggio si celi nell’ombra. Al contrario esso è visibilissimo, da decenni noto attraverso il suo giornale internet Breitbart, i suoi discorsi, i suoi documentari cinematografici. Il grigiore è costituito dall’oscurità delle sue manifestazioni, tanto numerose e diverse quanto è difficile districarne le linee principali. Ognuna delle sue tesi richiederebbe un volume, o perlomeno un capitolo, di illustrazione, ed è questo che manca. Per esempio, c’è chi dice che egli crede in cicli storici ventennali che informerebbero la vita delle nazioni; una teoria tanto complessa che però non viene sviluppata e resa credibile.
Nelle sue conferenze e scritti ricorre anche spessissimo il concetto di una “civiltà giudeo-cristiana” che Bannon sembra aver preso in prestito da una retorica diffusa, che io sappia, soltanto negli Stati Uniti (forse anche in Israele), senza tuttavia che nessuno, né Bannon ne altri, si sia mai dato la pena di precisarne e difenderne il significato. Normalmente, infatti, perlomeno nell’accezione che ne è stata data in occidente, i suddetti due filoni di civilizzazione, quello ebraico e quello cristiano, sono stati tenuti distinti, e anzi, per molti secoli, sono stati considerati antitetici.
Solo negli Stati Uniti vengono adesso con la massima disinvoltura fusi insieme; un costume che sembra anche far parte dello sforzo in atto da qualche decennio per de-legittimare l’abitudine occidentale di dividere la storia in due grandi epoche, quella “a.C.” e quella “d.C.”; sostituendo invece queste designazioni con quelle molto più generiche di nuovo conio “B.C.E” (significato: “Before Common Era”, cioè “prima dell’epoca comune”) e C.E. (“epoca comune”); in altre parole introducendo nella generale visione storica una “comunione” nuova (giudeo-cristiana?), ed escludendone l’antico ideale unificatore dell’occidente: Cristo.
Secondo le informazioni relative all’ideologia di Bannon apparse sulla stampa americana, chiarimenti sull’ideologia stessa, che qualcuno ha definito “tradizionalista”, sono stati dati in varie conferenze che lo stesso Bannon ha tenuto a Roma nel corso di congressi di un Istituto cristiano denominato “Dignitatis Humanae”. Si tratta di un’associazione fondata nel 2008 a Strasburgo dal parlamentare inglese Benjamin Harnwell, come reazione al rigetto della candidatura dell’italiano Rocco Buttiglione alla vice presidenza del parlamento europeo in quanto la sua attività sarebbe stata indebitamente condizionata dalla sua qualità di uomo cattolico. L’Istituto sarebbe stato trasferito a Roma nel 2011 e posto sotto il patronato prima dell’ottantenne cardinale siciliano Renato Martino, poi sotto quello del 68enne cardinale americano Raymond L. Burke, patrono anche del Sovrano Ordine di Malta.
Bannon è stato uno dei propagandisti dell’associazione in USA attraverso il suo bollettino via internet Breitbart, mentre l’associazione si è manifestata una sostenitrice e ammiratrice di Bannon – definito da Harnwell, in un’intervista con il New York Times “una bibliografia ambulante” – in Europa, invitandolo più volte a prendere la parola nei suoi congressi annui.
Tutto è andato bene fino a quando l’associazione, profondamente conservatrice, e in particolare il suo patrono cardinale Burke non si sono scontrati con il Papa Francesco, il quale, uomo notoriamente non conservatore, non è sembrato apprezzare le attività del cardinale né presso l’Istituto Dignitatis, né presso lo S.M.O.M.. Una delle conseguenze è stata la rimozione del Gran Maestro dell’Ordine di Malta, un altro gentiluomo inglese, mentre il cardinale Burke è stato, come mi ha detto un eminente membro italiano dello S.M.O.M. che ha preferito conservare l’anonimato, “totalmente emarginato.”
Quanto a Bannon e all’Istituto Dignitatis, le loro posizioni in Europa appariranno forse più chiare in occasione del prossimo congresso annuo dell’Istituto. Sembra significativo che una delle posizioni difese da Bannon nei suoi interventi sia a Roma che negli Stati Uniti è stata la sua condanna del terrorismo in quanto carattere intrinseco dell’ Islam, una posizione condivisa ardentemente anche dall’originario collega di Bannon alla sommità della Casa Bianca, il già citato ex Consigliere per la sicurezza nazionale gen. Michael Flynn[1] e che inizialmente si è riflessa nella decisione del presidente Trump di proibire indiscriminatamente l’accesso negli Stati Uniti dei cittadini di un certo numero di nazioni islamiche in nome delle esigenze di sicurezza americane. Flynn è stato successivamente estromesso da Trump mentre la decisione in questione è stata temporaneamente bloccata dal potere giudiziario americano.
Per quanto riguarda il Papa, sembra evidente che egli non abbia intenzione di permettere a un Istituto che dichiara di agire in nome della Chiesa cattolica, di riaccendere una crociata contro le nazioni islamiche. Ma anche il presidente Trump ha trovato necessario addolcire le sue posizioni anti-islamiche nel discorso al Congresso pronunciato all’inizio del marzo 2017, discorso che, tra l’altro, era stato in precedenza scritto in massima parte proprio dal “consigliere strategico” della Casa Bianca, Bannon. Nel suo discorso ha peraltro annunciato la decisione di aumentare di 54 miliardi di dollari la spesa per la difesa, già consistente in oltre mezzo trilione, ma al tempo stesso ha trovato per fortuna anche opportuno lamentare le interminabili guerre americane nel Medio Oriente senza le quali, ha detto, il debito pubblico americano potrebbe essere ridotto “di cinque o sei trilioni”.
È anche notevole che Trump non abbia mai riparlato dell’intenzione, proclamata durante la campagna elettorale, di “smantellare” l’accordo nucleare con l’Iran, nè di riproporre le posizioni estreme in favore di Israele precedentemente adombrate, come il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme o l’abbandono della promessa di uno stato indipendente alla popolazione palestinese. In realtà nonostante le sperticate dichiarazioni di appoggio a Israele fatte durante la campagna elettorale, quali siano le reali intenzioni di Trump a proposito del conflitto israelo-arabo, che Trump ha detto di voler comporre con l’aiuto delle nazioni arabe amiche degli Stati Uniti come l’Egitto e la Giordania resta ancora oscuro. Un indizio potrà essere costituito dalla sorte che farà la sua nomina, come ambasciatore americano in Israele, di David M. Friedman, una persona che la maggioranza degli israelo-americani non legati al sionismo estremista, cioè i “riformisti” (che sono poi essi stessi la maggioranza degli israeliti americani) considera inaccettabile per le sue posizioni oltranziste in favore del governo israeliano di estrema destra. Friedman si è dichiarato in favore dell’appropriazione pura e semplice da parte di Israele dei territori occupati in Palestina; ha denigrato la soluzione bi-statale e ha paragonato i “riformisti” americani ai “kapò dei campi di concentramento”, dicendo anche che sono “peggio dei nazisti.”
Friedman ha ritrattato questi insulti nella seduta iniziale della commissione del Congresso che deve ratificare la sua nomina, ma l’organizzazione israelo-americana moderata e pacifista “J-Street” ha montato una vasta campagna contro di lui e la nomina, nonostante la maggioranza repubblicana della commissione, è tuttora incerta.
Non né neppure impossibile che Trump prenda in considerazione il fatto che perlomeno in questo periodo la minaccia che grava sulla popolazione americana non sia il terrorismo d’ispirazione islamica (del resto totalmente quiescente) ma l’antisemitismo violento di vecchio stampo, che sta rialzando il capo man mano che comincia a diffondersi nel Paese la constatazione che l’interminabile impelagamento americano nel Medio Oriente è dovuto alla politica sempre più estremistica del governo d’Israele, condannata ormai anche nel resto del mondo e formalmente anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Questo tipo di reazione (da me prevista più volte) si sta manifestando in un’ondata di minacce telefoniche a famiglie e istituzioni ebraiche di vario tipo, e con distruzioni nei cimiteri ebraici; gli incidenti qualificati ufficialmente come antisemiti, già saliti a un totale di 615 nel 2015, stanno adesso arrivando ad oltre un centinaio al mese.
È sperabile che rifletta su questo fenomeno anche Trump, prima di avventurarsi nella politica di antagonismo anti-islamico implicita nei suoi pronunciamenti.
L’opportunità che egli si dedichi invece a sforzi di risanamento sul piano interno è stata messa in risalto proprio da una famosa pubblicazione della comunità israelita, la rivista dei cosiddetti neo-conservatori (o “neocon”) Commentary. Questa ha dedicato quasi per intero il suo numero del marzo 2017, intitolato “Il nostro miserabile XXI Secolo”, a un elenco dei mali senza precedenti che in tutti questi primi anni del nuovo millennio hanno con ritmo crescente afflitto il popolo americano: ristagno economico, fine del “sogno americano” per le giovani generazioni, diffusione della droga e degli oppiacei assuefacenti, peresino diminuzione della longevità media.
Un editoriale ugualmente sconsolato sulla contumacia di Trump, dal titolo “Un comandante in capo che non c’è” è apparso quasi contemporaneamente sul New York Times[2] ; è illustrato da una sagoma degli Stati Uniti in forma di vascello, profondamente inclinata sull’orizzonte.
[1] Il gen. Flynn – soprannominato dal settimanale New Yorker “il generale Caos” – era stato già una volta rimosso dalla carica di coordinatore per la sicurezza nazionale dal presidente Obama per la sua maniaca opposizione all’Iran, che egli accusava di essere responsabile anche della situazione in Libia. È anche autore di un libro di condanna dell’Iran insieme all’analista politico Michael Ledeen. Quest’ultimo è stato a suo tempo notissimo anche negli ambienti giornalistici e politici in Italia, dove ha risieduto per alcuni anni, per la sua amicizia con Indro Montanelli e la sua collaborazione a Il Giornale. Rientrato negli Stati Uniti, è stato tuttavia dichiarato persona non grata da una commissione parlamentare italiana.
[2] 2. 3.2017