Quando nell’aprile 2015 Hillary Clinton annunciò di candidarsi alla Casa Bianca, tutti scommisero sulla sua inevitabile vittoria. Oggi, a distanza di poco più di un anno dall’inizio della propria campagna elettorale, la ex First Lady attraversa un percorso irto di ostacoli che da grande favorita l’ha trasformata in candidato “debole”, stretta tra allarmanti indagini e avversari politici agguerriti. Il grande vantaggio nei confronti di Donald J. Trump è evaporato preannunciando tra i due una sfida all’ultimo voto, mentre sul fronte interno Bernie Sanders è nel bel mezzo di un’inaspettata rimonta in California, dove si voterà il prossimo 7 giugno.
Report imbarazzante. In questa difficile settimana, però, i grattacapi di Hillary hanno riguardato le ultime preoccupanti evoluzioni dell’email gate, l’indagine dell’FBI sulla gestione della corrispondenza quando ricopriva il ruolo di Segretario di Stato.
Nonostante tenti da tempo di tranquillizzare i suoi sostenitori minimizzando la questione, recentemente la Clinton ha subito un duro colpo, che ha minato la sua già scarsa credibilità e non ha tardato ad avere micidiali ripercussioni politiche. Martedì scorso, l’ispettore generale del Dipartimento di Stato ha rilasciato un report di 80 pagine dal contenuto imbarazzante. Nel rapporto, si legge che Hillary “avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione a utilizzare un indirizzo email e un server privato per svolgere le proprie attività di ufficio”. Tuttavia, anche se l’avesse chiesta, “il Dipartimento di Stato gliel’avrebbe negata” per ovvie ragioni di opportunità e sicurezza.
Che la scelta di installare un server privato in casa non fosse affatto prudente è inoltre dimostrato dal fatto che nel 2011, stando a quanto afferma l’ispettore generale, il consulente IT della ex First Lady dovette bloccare l’attività informatica per il sospetto che qualche hacker stesse tentando di entrare nel sistema.
Ancora, si legge che Hillary “avrebbe dovuto cedere tutti i suoi messaggi di posta elettronica prima di lasciare l’incarico. Non facendo ciò ha violato i regolamenti interni del Dipartimento, i quali si rifanno a loro volta alla legislazione del Federal Record Act”.
Insomma, dal rapporto è emersa una realtà in netto contrasto con quanto affermato dalla front runner democratica, la quale fino a poco prima sosteneva di aver seguito alla lettera tutte le regole in materia di archiviazione della corrispondenza, ricevendo dalle autorità un apposito permesso di installare un server privato nella sua abitazione di Chappaqua, New York.
Chi conosce i tentativi con cui per decenni gli avversari politici hanno tentato di affossare i Clinton con scandali spesso infondati, non può che guardare all’email gate con un pizzico di ironia. Le scelte avventate di Hillary potrebbero essere state dettate proprio dalla volontà di non esporsi a fughe di notizie, mantenendo il controllo di tutte le informazioni che la riguardavano. L’ossessione per la riservatezza avrebbe così avuto un effetto boomerang. E per mettersi al riparo da finti scandali, la Clinton avrebbe finito per causarne involontariamente uno autentico, dagli esiti potenzialmente disastrosi.
Lo stesso report sembra suggerire tale interpretazione, affermando che quando il suo vice le suggerì di aprire un account ufficiale presso il Dipartimento di Stato, la Segretario di Stato “espresse preoccupazioni per l’esposizione delle sue mail personali”.
A prescindere dalle possibili future implicazioni giudiziarie, le conseguenze politiche della spinosa faccenda sono già esplose, costringendo anche i media con palesi simpatie clintoniane a criticare aspramente il comportamento di Hillary, e offuscandone l’immagine presso l’elettorato americano.

Mossa coraggiosa? Nel frattempo, Sanders intravede la possibilità di conquistare la California, stato che fino a pochi mesi fa sembrava saldamente nelle mani della Clinton. Durante il suo lungo tour elettorale nel Golden State Bernie ha come sempre radunato folle entusiaste, evitando però di infierire sull’email gate e concentrandosi sui temi a lui cari.
Nello stato più progressista d’America, sembrano esserci importanti tentativi di riconciliazione tra i democratici. A dimostrarlo è il comportamento del popolare governatore Jerry Brown, il quale pur avendo annunciato all’ultimo minuto il suo endorsement a Hillary, ha avuto parole di stima e rispetto per Sanders, quasi a voler suggerire la necessità di una imminente pacificazione tra le diverse anime del partito.
Addirittura, per uscire dall’attuale empasse, secondo alcuni il team della Clinton starebbe preparando una mossa coraggiosa: offrire al senatore del Vermont il ruolo di running mate, per fidelizzare i suoi sostenitori e sancire una santa alleanza tra progressisti. Se tale ipotesi si concretizzasse, come anticipato qualche tempo fa da queste colonne l’intero corso delle elezioni presidenziali potrebbe cambiare di colpo.
Ma per ora si tratta solo di indiscrezioni. Quel che è certo, al contrario, è che cominciano a farsi largo negli ambienti dell’establishment democratico velate paure sui numerosi punti deboli della Clinton e sulla capacità della ex First lady di difendersi dagli immancabili attacchi che subirà da parte degli avversari conservatori.
The Donald scatenato. Dal lato opposto della barricata, dopo aver formalmente raggiunto il numero di delegati necessari alla nomination e ottenuto persino l’appoggio dell’ex nemico Marco Rubio, nel corso della sua campagna in California Donald Trump continua a dispensare la quotidiana dose di insulti a chiunque non gli vada a genio, come il giudice di origini messicane Gonzalo Curiel, che presiede una class action sullo scandalo della Trump University, mentre le tensioni generate in questi mesi dal tycoon sono di nuovo esplose in violenti scontri tra manifestanti pro e anti-Trump a San Diego, sfociati in una trentina di arresti.
La reazione del magnate al report del Dipartimento di Stato non si è fatta ovviamente attendere e il Trump ha subito colto la palla al balzo, infiammando gli animi dei suoi sostenitori al grido di Crooked Hillary, soprannome con il quale ha deciso di etichettare la rivale democratica.
Eppure, di scandali da farsi perdonare The Donald ne avrebbe fin troppi: dal citato processo sulla fantomatica Trump University, alle ben quattro bancarotte che hanno coinvolto le sue aziende dal 1991 al 2009.

Di recente, il milionario newyorkese è stato poi al centro di un’inchiesta del Washington Post, relativa alla raccolta fondi destinati ai veterani, quando a fine gennaio il tycoon si rifiutò di partecipare a uno dei dibattiti organizzati da Fox News tra i candidati repubblicani. In sostanza, alla fine dell’evento parallelo messo in piedi da Trump furono raccolti (a detta degli organizzatori) sei milioni di dollari, ma mesi dopo non era ancora chiaro né l’ammontare effettivo del fundraising né se tutti i soldi (tra cui una donazione personale di un milione dello stesso Trump) fossero andati a finire nelle casse di associazioni di assistenza ai veterani.
Per tutta risposta, martedì il magnate ha tenuto una conferenza stampa sul tema spiegando le sue ragioni e mostrando una lista di enti beneficiari delle donazioni. Non poteva mancare, va da sé, una feroce invettiva contro i media, dipinti senza mezzi termini come subdoli e disonesti. Secondo il candidato repubblicano, i giornalisti “dovrebbero vergognarsi” per aver sollevato la questione. Come se il solo dubitare sulla sua buonafede fosse un affronto, e non un dovere di cronaca. Le intemperanze di Trump non hanno risparmiato nelle ultime ore nemmeno Matteo Salvini, che il tycoon nega di aver incontrato personalmente (nonostante siano state pubblicate a suo tempo delle foto che lo ritraevano sorridente al fianco del destrorso nostrano). Il leader della Lega Nord deve esserci rimasto male, data la simpatia dimostrata più vote per il collega d’oltreoceano”.
Terzo incomodo. Tra le pieghe di questa travagliata settimana per i front runner dei due maggiori partiti, a finire sotto i riflettori della stampa è stato infine un evento, che in altri tempi avrebbe ricevuto attenzioni minori. Si tratta della convention del partito libertario tenutasi a Orlando lo scorso week end. A ottenere la nomination è stato Gary Johnson, ex repubblicano e governatore del New Mexico dal 1995 al 2003, il quale ha scelto come running mate Bill Weld, anche lui vecchio repubblicano pentito e un tempo governatore del Massachusetts. Quest’anno, di fronte alla nota impopolarità di Clinton e Trump, il ruolo dei libertari potrebbe rivelarsi inedito, influendo sull’esito delle elezioni di novembre. Il motivo è semplice: l’ideologia del partito concilia posizioni neoliberiste amate dagli ultraconservatori americani in materia economica e istanze ultra-liberal su temi sociali care ai progressisti, come la legalizzazione delle droghe o l’aborto. E Johnson, che alcuni sondaggi danno addirittura al 10% delle preferenze, punta su questo curioso mix per attrarre dalla sua gli elettori insoddisfatti di entrambi gli schieramenti.
Non è la prima volta che un terzo candidato prova a mettere i bastoni tra le ruote ai due maggiori partiti negli USA. Nel lontano 1968 il Southern democrat George Wallace (all’epoca convinto segregazionista) riuscì addirittura a conquistare alcuni stati nel profondo Sud candidandosi da indipendente, mentre in tempi più recenti l’industriale texano Ross Perot strappò a Bill Clinton e a George H.W. Bush più del 18% del voto popolare nelle elezioni del 1992.
E pensare che Gary Johnson era già entrato nella storia del suo partito quando nelle presidenziali del 2012 arrivò a guadagnare l’1% dei voti, un “successo” mai ottenuto prima dai libertari, mentre oggi potrebbe superare ogni record.
Nel mezzo di elezioni piene di sorprese e imprevisti, può avvenire anche questo.