Isaac Newton
Nel 1671 Isaac Newton pubblica sul Philosophical Transaction of the Royal Society il suo primo lavoro sull’ottica, un lavoro iniziato ben prima durante gli studi universitari. Tra il 1665 e il 1666, infatti, Newton aveva compiuto vari esperimenti sulla composizione della luce, guidato dai lavori che Keplero e Cartesio avevano scritto sull’argomento. La scoperta fu soggetta a parecchie critiche in particolare da parte di Robert Hooke allora presidente della Royal Society. Tuttavia la tenacia di Newton unita a un forte carattere e a una capacità oratoria non comune, posero fine alla diatriba, anche se dovettero passare parecchi anni.
A questo primo lavoro, seguì un libro, nel 1717, intitolato Optiks, che fu dapprima scritto in inglese e poi in latino e poi ancora in inglese (la stesura latina ne permise l'accessibilità anche gli scienziati non inglesi). Il grande periodo di tempo intercorso tra la scrittura dell’articolo e l’uscita del libro fu essenzialmente dovuto alle critiche fatte all’articolo e al susseguente rifiuto di Newton di scrivere ancora per la rivista.
Durante il XVII secolo si pensava che la luce, come il suono, consistesse in un'onda e come tale fosse soggetta a un movimento ondulatorio. I principali critici di Newton nel campo dell'ottica, Robert Hooke e Christian Huygens, erano i principali sostenitori di questa teoria, con la quale Newton però si trovava in disaccordo. La sua, infatti, era una teoria essenzialmente corpuscolare: poiché la luce (a differenza del suono) viaggia in linea retta e provoca ombra, allora sarà composta di particelle discrete che si muovono in linea retta come dei corpi inerziali; poiché l'esperimento aveva dimostrato che le proprietà dei colori erano costanti e immutabili, la luce non poteva essere altro che composta di particelle.
Tutta la sua sperimentazione era mossa da un modello fisico che doveva essere spiegato. Newton chiamò il suo esperimento Experimentum Crucis, un esperimento che doveva chiarire definitivamente la natura eterogenea della luce, confutando tutti gli altri esperimenti. La parte più provocatoria dell’Optiks è forse quella in cui Newton si pone delle domande sulla natura della luce, della materia e delle forze della natura.
Johan Wolfgang Goethe
Nel 1791 Johann Wolfgang von Goethe pubblica i seguenti articoli: Beitraege zur Optik (Contributo all’ottica), seguito da Ersuch, die Elemente der Farbenlehre zu entdecken (Tentativi per scoprire gli elementi della Teoria del Colori) e Widmung an Herzogin Luise von Sachsen-Weimar und Eisenach (Dedicato alla Duchessa Luise von Sachsen-Weimar und Eisenach) e Enthuellung der Theorie Newtons (Spiegazione della Teoria di Newton), raccolti poi nel libro La teoria dei colori.
Il suo grande interesse per la pittura rinascimentale e per i colori naturali, lo indusse a fare una serie di esperimenti ispirati a quello di Newton. Come Newton, Goethe, oltre che i colori primari, aveva osservato delle frange d’interferenza, ma a differenza di Newton non aveva trascurato il fenomeno. Per meglio capirlo, egli sistematicamente variava le condizioni sperimentali, la forma, le dimensioni, il colore e l’orientamento delle immagini visualizzate, l'angolo di rifrazione del prisma e la distanza del prisma dalla figura, per determinare come queste geometrie avessero influenzato ciò che vedeva. Un lavoro che si può definire una sperimentazione esplorativa poiché, in contrasto con il metodo scientifico del suo tempo, aveva adottato un metodo che permetteva di sottolineare il ruolo dei fenomeni a ogni livello.
Rispondendo al suo amico Schiller, Goethe descriveva il suo metodo: “Osservando la natura e riflettendoci sopra, ho cercato di rimanere fedele al metodo seguente, quanto più possibile”. Egli descrive la sua metodologia attraverso tre stadi:
1. i “fenomeni empirici”, le osservazioni ordinarie che potrebbe fare qualsiasi osservatore attento;
2. i “fenomeni scientifici”, che sorgono dalla sperimentazione sistematica, tra cui le variazioni delle condizioni esterne;
3. i “fenomeni puri o archetipici”, la forma più alta dei fenomeni che permette un incontro percettivo con le leggi della natura (o un livello legato alla coscienza).
Il criterio che Goethe aveva adottato era quello di muoversi in modo sempre più approfondito sullo studio dei fenomeni, per capirne il loro funzionamento, non astraendosi dai fenomeni, per ricercare le validazioni dei modelli, ma affinando i fenomeni stessi. Il processo secondo Goethe sarebbe dovuto culminare nell'incontro con un fenomeno archetipico. Quando uno scienziato “vede” il fenomeno archetipico, “vede” attraverso esso un modello.
Quando Galileo guardò il lampadario oscillante nella Cattedrale di Pisa, vide l'archetipo per il moto isocrono di un pendolo. Mentre gli altri scienziati osservavano nell’oscillazione solo dei fenomeni empirici, Galileo, attraverso il suo lungo studio della meccanica, si era preparato per vedere il fenomeno archetipico. Questo è il momento della scoperta, il momento in cui si giunge alla natura del fenomeno che sta prima di noi.
Goethe voleva arrivare a un incontro percettivo in modo intelligente: non era interessato a formalizzare lo spaccato fenomenologico percepito attraverso un modello matematico o meccanico, perché questo avrebbe tolto le dimensioni soggettive e personali dell'incontro; il suo approccio enfatizzava la dimensione percettiva delle leggi della natura piuttosto che la loro rappresentazione astratta o meccanica. La comprensione della scienza per Goethe era specialmente utile per sviluppare una scienza della consapevolezza in cui l’esperienza di vita comprende anche il campo di studio in cui si è coinvolti. Per Goethe il rapporto tra l'osservatore e l'osservato è dinamico e inscindibile. Ogni indagine implica la trasformazione di sé. Le informazioni sono reperibili nei libri e nelle banche dati, la manipolazione delle equazioni è un'abilità tecnica importante, ora anche possibile attraverso pacchetti software, ma la capacità di “vedere” una legge di natura è riservata solo allo scienziato. Questa è la differenza tra il novizio e lo scienziato.
La rottura della fisica classica
La spiegazione dei fenomeni fisici in termini meccanicistici raggiunse il suo apice nel tardo XIX secolo. Le teorie della relatività e della meccanica quantistica nacquero dall’incapacità della fisica classica a spiegare fenomeni che erano collegati all’atomo. La Fisica classica non era in grado, ad esempio, di spiegare le anomalie dell’esperimento di Michelson-Morley sull’esistenza dell’etere, né lo spettro della radiazione di corpo nero.
Di contro, la teoria della relatività non ci ha detto nulla circa i meccanismi che regolano la natura, ma funziona a livello delle simmetrie fondamentali dello spazio e del tempo. Essa ribaltò completamente la nozione di Lorentz-Fitzgerald per la contrazione delle lunghezze fisiche soggette a un’alta velocità, e la teoria dell'etere meccanico sostenuta da tutti i fisici ottocenteschi, compreso Maxwell. Nel corso delle sue ricerche, Lorentz dimostrò che il vento d'etere doveva alterare il ritmo degli orologi. Se dunque spirava il vento d'etere, le misure convenzionali di spazio e tempo erano alterate ed erronee in modo tale da simulare una realtà fisica in cui l'etere appariva sempre immobile e la velocità della luce era ancora la stessa in tutte le direzioni. Un risultato, questo, che va sotto il nome di “principio degli stati corrispondenti”.
Il lavoro di A. Einstein ribaltò completamente il punto di vista di Lorentz e portò la crisi della fisica classica a compimento. Einstein abbandonò completamente il concetto di etere abbracciando la nozione positivista secondo cui un ente, che in linea di principio non è osservabile, non ha diritto all'esistenza. Nell'interpretazione di Copenaghen della teoria quantistica, si rinuncia a parlare di un mondo reale di atomi con proprietà preesistenti e invece si “parla” di osservabili, in altre parole di correlazioni tra risultati di misurazioni specifiche.
Mentre la comprensione del problema meccanicistico appartiene alla sfera del quotidiano, la comprensione a livello quantistico e relativistico di ogni osservatore dà una spiegazione diversa e contraddittoria degli “eventi”, a seconda del suo stato di moto. Ciò che rimane costante è un modello più profondo. Possiamo rappresentare o spiegare quel modello in vari modi, ma come dice Goethe: “La costanza dei fenomeni è l'unica cosa importante; quello che pensiamo su di loro è abbastanza irrilevante”. Il processo essenziale è legato ancora una volta alla nostra coscienza.
Le neuroscienze stanno cercando di scoprire gli stati della coscienza, talvolta con l’uso di strumenti d’indagine che alterano il campo d’indagine, mentre invece sarebbe opportuno ricostruire la fenomenologia della coscienza attraverso un processo in prima persona. La coscienza è considerata una delle frontiere “finali” nella scienza moderna. Il fenomeno sembra tuttavia sfuggire a tutti i tentativi di riduzione scientifica e alcuni filosofi sostengono che noi non potremmo mai essere in grado di rivelare la sua vera natura. Negli ultimi decenni, il soggetto è stato ripreso da neuro-scienziati, che hanno cercato di trovare le correlazioni neurali della coscienza (NCC). Purtroppo la coscienza è un fenomeno piuttosto mal definito, e, infatti, una delle motivazioni per cercare il NCC è di dare una migliore definizione della coscienza. Invece di cercare prima di definire esattamente la coscienza e poi capire il funzionamento del cervello, l'idea è di avere delle scoperte neuro-scientifiche e psicologiche che convergano verso una più profonda comprensione della coscienza.
Allo stato attuale la coscienza è vagamente definita, come: “Lo stato di veglia nel quale abbiamo delle esperienze che siamo in grado di riferire al libero arbitrio”. La ricerca s’identifica con il correlato neurale di tale stato e le esperienze relative. In realtà la domanda che ci dobbiamo porre è invece: “Possono le neuroscienze rivelare la vera natura della coscienza e di conseguenza affinare la nostra comprensione per cui siamo in grado di discriminare tra ciò che è un correlato neurale legato alla coscienza e l’attività neurale che non è correlabile alla coscienza?
Un problema difficile
La risposta a questa domanda viene definita “un problema difficile (hard problem)” la cui soluzione richiede almeno due diversi approcci: uno che diremo in prima persona, l’altro riferito al dualismo oggetto-soggetto. Nel primo caso, la “mia” prospettiva del mondo è unicamente percepita attraverso il “mio” punto di vista; il “mio” modello mentale è differente dal tuo, e anche se in modo parziale i nostri due modelli mentali non saranno mai identici. Al contrario possiamo parlare del risultato scientifico in terza persona, poiché la scienza si interessa solo dei fatti che sono valutati dalla comunità scientifica. Poiché l'esperienza soggettiva degli individui è accessibile solo all'indagine in prima persona, non può esserci alcuna scienza di tal esperienza. Piuttosto, alcuni sostengono, ci si dovrebbe limitare al correlato biologico della coscienza che, invece, è aperto a un’indagine in terza persona: dovremmo praticare un’etero-fenomenologia che interpreti i risultati ottenuti in prima persona da una prospettiva in terza persona.
Il dualismo soggetto-oggetto sostiene che la fenomenologia dell'esperienza vissuta è in gran parte un artefatto della coscienza umana e quindi non un'indicazione “oggettiva” del mondo fisico che sta fuori di noi. Nell'analisi scientifica tradizionale, il rosso del tramonto è, per esempio, dovuto alla diffusione, per un lungo cammino ottico della luce, di particelle che hanno una lunghezza d’onda più grande delle particelle presenti in atmosfera. I corpuscoli elettromagnetici raggiungono il sistema visivo che seleziona, scompone e ricompone, nel cervello, attraverso complesse reazioni elettrochimiche, il colore. L'esperienza soggettiva del “tramonto rosso” è spiegata in termini di una realtà oggettiva che è fatta da onde elettromagnetiche e corpuscoli che colpiscono la retina, si trasformano in segnali elettrochimici producendo processi sinaptici, neurali, ecc. In questo modo si costruisce un modello teorico che imita il fenomeno d’interesse mettendo assieme tutte le conoscenze acquisite.
Il passaggio logico è molto sottile e il primo a scoprirlo fu Bertrand Russell che inizialmente suppose che le entità fisiche potessero essere dedotte dai sensi, in questo, nel solco della tradizione Aristotelica. In Mysticism and Logic si rese conto che in linea di principio è impossibile dedurre una realtà oggettiva, mai prima sperimentata, dai dati percepiti dai sensi. Questo è dovuto al fatto che la Fisica non è dedotta attraverso entità oggettive; piuttosto, è dedotta dalla qualità. La Fisica descrive le proprietà delle cose (la massa, la carica, le frequenze, la velocità…) e i rapporti tra queste proprietà, ma in entrambi i casi misureremo delle proprietà. Noi ne possiamo misurare alcune con i sensi, altre con gli strumenti, ma in definitiva non riusciremo mai ad andare di là di una descrizione. Nella teoria quantistica, ad esempio, dobbiamo definire “un set completo di osservabili commutabili” come base per una descrizione teorica, ma non possiamo fare delle affermazioni indicative di una realtà che è, in linea di principio, oltre la descrizione stessa. In conformità a questo ragionamento, tutta la scienza si occupa di proprietà “soggettive”. Rigore e “obiettività” sorgono non tanto quanto riferimento a un ipotetico regno della scienza ma dalla cura sperimentale e dal rigore nell'analisi teorica. Da questo punto di vista, pertanto, che esista una forma soggetto-oggetto è irrilevante per la scienza perché se l'oggetto di studio è oltre l'esperienza (sia diretta che mediata attraverso uno strumento), allora è anche non suscettibile di studio scientifico.
Rimane quindi l’approccio in prima persona poiché l’esperienza è sempre un fatto privato. Possiamo confrontare le nostre esperienze individuali, ma il concetto di esperienza in terza persona è una costruzione filosofica. Ciò che vedo “io” può essere diverso da ciò che vediate ”voi”. Il concetto giusto non è “vedere”, ma “percepire” che è il punto di vista di Goethe. La mente deve essere aperta allo sviluppo e ogni scoperta produce un piccolo cambiamento nella coscienza. La mente è malleabile, fino al punto di raggiungere una forma duale di coscienza. In questo, il punto di vista di Goethe è simile a quello della tradizione contemplativa, individuando la soluzione non attraverso qualche abile teoria filosofica, ma in una profonda trasformazione della coscienza di sé.
I modelli mentali
I modelli mentali sono stati introdotti e sviluppati dagli scienziati cognitivi per studiare quali sono i meccanismi attraverso i quali il genere umano percepisce, conosce, prende delle decisioni e si comporta. Il campo relativamente nuovo dell’Human-Computer-Interaction (HCI) ha adottato e adattato questi concetti per favorire lo studio di quell'area di maggiore interesse che va sotto il nome di utilizzabilità. Il fatto che si debba essere in grado di provare mentalmente le azioni previste ha permesso di sviluppare dei modelli mentali sperimentali che ci permettono di ottenere delle informazioni sui processi mentali. Un'informazione che ha contribuito al lavoro sull'intelligenza artificiale e alle simulazioni relative alla Human Computer Interaction (HCI) e un campo relativamente nuovo sviluppatosi con il primo computer elettronico, ma diventato molto più importante ora del computer. Ciò che importa è l’interfaccia con l’utente. La sua importanza è tale che la HCI è costantemente utilizzata per studiare la complessità e molti dei risultati ottenuti sono stati utilizzati dagli scienziati cognitivi.
Per chi usa la HCI, un modello mentale è un insieme di regole su come funziona un sistema. Se i modelli mentali sono il modo attraverso il quale ragioniamo, è anche vero che sono altamente instabili e che possono cambiare frequentemente. Inoltre, non devono essere confusi con le rappresentazioni iconiche, che sono dei sottoinsiemi; essi sono una rappresentazione astratta possibile mediante gli strumenti cui siamo in possesso.
Johnson Laird fa risalire i primi concetti di modello mentale a Peirce e scrive che la: “Deduzione è quel modo di ragionare che esamina lo stato delle cose asserite nella premessa, forma un diagramma dello stato delle cose, percepisce nelle parti del diagramma le relazioni non esplicitamente menzionate nelle premesse, soddisfa attraverso gli esperimenti mentali utilizzando quei diagrammi che asseriscono che queste relazioni dovrebbero sempre sussistere, o almeno così dovrebbe, in una certa proposizione di casi, e conclude la loro necessaria, o probabile, verità”.
Tuttavia non v’è dubbio che il termine modello mentale sia stato adottato anche da filosofi e scienziati anteriori a Johnson Laird, i quali tuttavia avevano in mente un modello adatto alla loro disciplina, quindi limitato. Johnson Laird cita Kelvin delle letture di Baltimora del 1884 in riferimento alla necessità di costruire dei modelli mentali: “I never satisfy myself until I can make a mechanical model of a thing. If I can make a mechanical model I can understand it. As long as I cannot make a mechanical model all the way I through I cannot understand; and that is why I cannot get the electro-magnetic theory”. Kelvin non aveva mai accettato la teoria dell'elettrodinamica di Maxwell perché non la poteva ridurre a un modello meccanico.
Conclusioni
Per la maggior parte degli scienziati cognitivi, oggi, un modello mentale è una rappresentazione interna del modello, in scala, di una realtà esterna. È costruito dalla conoscenza proveniente dall'esperienza precedente, da parti di uno schema, dalla percezione e dalle strategie per risolvere un problema (problem solving). Un modello mentale contiene informazioni minime, è instabile e soggetto a cambiamenti. Esso è utilizzato per prendere decisioni in tutte le circostanze che appaiono nuove. Nondimeno un modello mentale deve essere "praticabile" ed essere in grado di fornire un feedback sui risultati in modo tale che tutti gli esseri umani siano in grado di valutare i risultati delle azioni o le conseguenze di un cambiamento di stato. In questo i modelli mentali sono una parte della soluzione al “problema difficile (hard problem)”, una rappresentazione della realtà soggettiva che si oggettiva per cercare di rappresentare il modo attraverso il quale ragioniamo: una formalizzazione dell’approccio in prima persona. Le modalità scientifiche di Newton rappresentano la struttura esteriore dell’esperimento, l’approccio in terza persona. Le modalità di Goethe rappresentano la struttura interiore o soggettiva dell’esperimento, l’approccio in prima persona. Il moderno scienziato dovrebbe tener conto di entrambi per evitare di fare un’operazione dicotomica di un processo complesso.
Per saperne di più
Johan W. von Goethe, La teoria dei Colori, Il Saggiatore tascabili (2008)
Rodolfo Guzzi, La strana storia della luce e del colore, Springer (2012)
Philip N. Johnson-Laird, Mental Models: Toward a Cognitive Science of Language, Inference and Consciousness, Harvard University Press (1983)
Bertrand Russell, The Relation of Sense-Data to Physics, reprinted in Mysticism and Logic London George Allen & Unwin LTD Ruskin House Museum Street – Project Gutenberg (2008)
Arthur Zajonc, Catching the Light, University Press (1993)