Il 14 aprile 1912, alle otto di sera, i 322 passeggeri di prima classe cenarono sul Titanic con filetti di pesce, uova all’Argenteuil e pollo alla Maryland. Gli amanti del formaggio scelsero tra stilton, camembert, o anche gorgonzola, cheddar e roquefort. Poche ore più tardi il transatlantico soprannominato ‘l’inaffondabile’, che era al suo viaggio inaugurale, naufragò dopo la collisione con un iceberg al largo di Terranova. Quel menù, del quale si sono salvate alcune copie, racconta con straordinaria efficacia lo stile e la raffinatezza di una grande epopea che si trasformò in una tragedia di dimensioni storiche.
Pensai a quell’elegante cartoncino quando, per la prima volta in vita mia, trovai sul tavolo di un ristorante un QRcode. Ero in Sardegna. Molti clienti non riuscivano a leggere la lista delle vivande. Inquadravano nervosamente quel codice col telefonino, si agitavano, chiamavano in causa il maître che, ovviamente, non aveva soluzioni miracolose per risolvere il problema. Così, appollaiato su un seggiolone in un angolo del locale, un cameriere passò la serata a sanificare manualmente ogni pagina plastificata di un volume grosso due dita: il tradizionale menù stampato. E correva da un tavolo all’altro con i libroni appena sterilizzati, per ovviare agli inconvenienti di una tecnologia ancora balbettante e imprecisa. Col tempo, i menù digitali hanno cominciato a funzionare molto meglio e oggi dilagano.
In teoria non c’è gara: il digitale batte il cartaceo dieci a zero. È più igienico e in tempi di Covid non è un vantaggio da poco. E poi è pratico. Se il telefonino non fa le bizze, in un attimo si scorrono gli elenchi di antipasti, primi, secondi, contorni, dessert, vini in bottiglia, vini al calice. In questo modo il ristoratore risparmia tempo e soldi. Ricordo gli anni Settanta e Ottanta, quando Gianluigi Morini, storico proprietario del San Domenico di Imola (e, per un breve periodo, anche del San Domenico di New York) passava due volte al giorno in tipografia per poter avere i suoi eleganti menù cartacei, freschi di stampa, a pranzo e a cena. Sempre diversi, sempre fascinosi e impeccabili. Non si ricorda un solo refuso nella storia del grande ristorante imolese e probabilmente anche nella storia di diversi altri magnifici locali italiani e francesi che, nell’organizzazione dei menù cartacei, si comportavano esattamente allo stesso modo: continui cambi di piatti e un incessante andirivieni tra il ristorante e la tipografia di fiducia.
Lasciatemelo dire, il menù tradizionale sarà pure anti-igienico, ma rimane un’altra cosa. È un racconto, è un’emozione che nessun menù digitale potrà mai offrire. Sfoglio la mia piccola collezione di menù d’epoca e trovo una cura dei dettagli, un gusto dell’illustrazione, una precisione e una qualità grafica che oggi sono un lontano ricordo. Non a caso, quei magnifici rettangoli di carta litografata, spesso compilati a mano con svolazzanti calligrafie, alimentano un collezionismo appassionato, disposto ad accettare prezzi urticanti pur di acquisire i migliori oggetti del desiderio. I menù ingialliti della carrozza-ristorante dell’Orient Express raccontano, meglio di tante vecchie foto, l’atmosfera magica di quel lussuoso treno che nel secolo scorso correva tra Istanbul, Parigi, Venezia (e ancora oggi, almeno in parte, continua a farlo).
Certo, il menù tradizionale comporta sempre qualche rischio. Può succedere che un meticoloso cameriere vi allunghi la carta dicendo: “Prego signore, sul nostro menù può trovare di tutto”. E può succedere che il cliente di turno risponda seccato, come fece un celebre e ironico scrittore americano: “È vero, su questo menù c’è davvero di tutto. Me ne porti uno pulito”.
Sarà pure vecchio, superato, nemico dell’igiene, ma il menù tradizionale ha ancora un suo perché. Il grande Carlos Santana non aveva mai visto un QR code quando diceva: “Penso alla musica come a un menù, non posso mangiare le stesse cose tutti i giorni”. È ancora bello pensare a un menù come a una musica. Se non è un menù digitale è ancora più bello.