Radici abruzzesi, cuore romagnolo e una crescente passione per la cucina che lo ha portato a lavorare in mezzo mondo, New York compresa. A 66 anni Valentino Marcattilii è un pezzo di storia della ristorazione italiana. I motivi del suo successo sono comuni a tanti protagonisti dell’alta ristorazione: passione, costanza, tanto lavoro e buoni maestri. La sua vita si identifica soprattutto con un ristorante italiano tra i più celebri e celebrati, il San Domenico di Imola. Valentino ne è ancora un nume tutelare, anche se la guida della cucina è passata da anni al suo giovane e formidabile nipote, Massimiliano Mascia.
La storia di Valentino è una favola iniziata mezzo secolo fa, quando un vulcanico bancario appassionato di cinema e di gastronomia, Gianluigi Morini, diede vita a un locale destinato a scuotere la sonnolenta routine della buona tavola tricolore. Due stelle Michelin in pochi anni, quando nessuno in Italia ne aveva tre. “La nascita di questo ristorante – racconta Valentino – fu una sfida da pazzi in una città di pazzi. Qui c’erano più ospedali psichiatrici che teatri. Quando i primi clienti non ci trovavano e chiedevano informazioni, molti imolesi li invitavano a lasciar perdere e a cercare un posto meno caro. Ma nei momenti di difficoltà, Imola ci ha sempre sostenuto”.
Il mix del San Domenico era rivoluzionario e perfetto. Piatti curatissimi, né tradizionali né internazionali, legati semmai ai gusti raffinati delle grandi casate aristocratiche e imprenditoriali. Paste, arrosti, qualche piatto di mare, tanto altro. “Chiunque, almeno per un giorno, ha diritto di cenare come un re”, diceva il Fondatore. Un posto come il San Domenico te lo aspetteresti a Parigi, a Venezia o a Firenze. Non certo a Imola, una cittadina emiliano-romagnola di 70mila abitanti abituati a faticare per guadagnarsi una buona vita, più che a godersela. Argenti inglesi, cristalli austriaci, raffinatezza in ogni dettaglio, dalle tovaglie ai fiori, sempre freschissimi. E poi quell’accoglienza calda e impeccabile che fa sentire l’ospite atteso e coccolato.
Morini riuscì a portare a Imola il migliore cuoco dell’epoca. Nino Bergese era un maestro, celebre per una luminosa carriera nelle case di grandi famiglie (i Savoia, gli Agnelli) e in un piccolo magnifico ristorante di Genova. Cedette. Arrivò a Imola e cambiò quasi tutto, battezzando anche, come successore, un ragazzino di nome Valentino Marcattilii. Valentino è il fratello di Natale, un maître che da mezzo secolo impersona l’arte rara dell’accoglienza. E proprio per lavorare accanto al fratello, Valentino chiese e ottenne di entrare nell’equipe del San Domenico. Aveva appena 18 anni. Bergese fu il suo decisivo maestro. Su consiglio dello chef piemontese, Morini spedì Valentino a fare esperienza nei grandi locali della tradizione francese: l’Auberge de l’Ill in Alsazia, i fratelli Troisgros a Roanne, il Moulin de Mougins in Costa Azzurra, la Pyramide di Vienne
Morini (venuto a mancare pochi mesi) era raggiante di fronte allo spettacolo che ogni giorno andava in scena in cucina: “Il rapporto tra Bergese e Valentino era straordinario, si intendevano magnificamente”. Quel rapporto speciale produsse anche un risultato storico: l’ ‘uovo in raviolo San Domenico’. Pasta, spinaci, ricotta, tartufo. È il piatto più celebre della storia del ristorante, mai uscito dal menù, oggetto di infinite imitazioni.
Nel maggio 1977 una micidiale forma di cirrosi si portò via Bergese in pochi giorni. Fu un colpo terribile, ma Valentino era ormai pronto per diventare chef.
Così, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta la fama del ristorante imolese tocca i massimi. “Pensate a quanti cuochi si sono formati in questa cucina”, dice il top chef Massimo Bottura, che ogni Natale è a pranzo al San Domenico con la famiglia.
Per due settimane, nel 1981, Valentino e il suo gruppo lavorarono in una rassegna di cucina italiana al Rockfeller Center di New York. Fu allora che Morini e soci cominciarono a chiacchierare dell’idea di aprire un San Domenico a Manhattan.
La preparazione fu lunga e imponente, in perfetto stile San Domenico. Tony May, un coraggioso imprenditore di origine napoletana, mise sul piatto qualche milione di dollari. Trovati i soci americani e una splendida sede affacciata sul lato sud di Central Park accanto al Plaza, scattò un lavoro febbrile. Arredi, attrezzature, personale: tutto fu messo a punto a Imola e poi collocato a New York.
Il 18 giugno 1988 il San Domenico New York aprì i battenti. “Fu un assalto alla diligenza – ricorda Valentino – Arrivarono più di trecento clienti in un giorno tra lunch, pre-teatro e cena. Niente male per un locale con un centinaio di coperti. Eravamo orgogliosi ed eravamo anche certi che New York non avesse mai visto tanta italianità di quel livello”.
Il locale divenne di gran moda. Ai tavoli sfilavano Nancy Reagan e Anthony Quinn, Woody Allen e Harrison Ford, Pelè, Michael Douglas, Henry Kissinger, Liza Minnelli, Ivana e Donald Trump. Passava spesso Luciano Pavarotti che aveva casa lì accanto.
Qualcosa però si ruppe fra il team italiano e il socio americano. “Finì male in meno di due anni -ricorda Valentino – Rispettammo il contratto fino alla scadenza e non lo rinnovammo. May mantenne i diritti sull’uso del nome”. Ora il locale si chiama Marea e non più San Domenico. Lo gestisce Michael White, chef affermatissimo che tanti anni fa divenne amico di Valentino a Imola dove era approdato a fare esperienza.
Oggi il San Domenico vive una nuova splendida stagione. Dà lavoro a una quindicina di persone per 50 coperti. Massimiliano Mascia ne é il proprietario, in società con gli zii Valentino e Natale Marcattilii. Il menù è un mix di classici e belle novità. Il ristorante imolese è ancora tra i pochi indirizzi che un appassionato di grande cucina italiana non può non conoscere.
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