“Quando mio padre seppe che non sarei diventato un avvocato, o un venditore di petrolio come lui, non mi parlò per due anni. Gli gridai che avrei preso le tre stelle Michelin, ma dicevo così per dire, mica ci credevo”. Massimo Bottura è il cuoco italiano più celebre nel mondo. Da anni è quasi impossibile prenotare un tavolo all’Osteria Francescana, il suo bel ristorante nel centro storico di Modena, preso costantemente d’assalto da turisti-gastronomi che arrivano da tutto il mondo. Quaranta coperti e un numero non inferiore di dipendenti, ora tristemente bloccati dalle norme anti pandemia. Ha tre stelle Michelin dal 2012. Per due volte, nel 2016 e nel 2018, Bottura è stato premiato come cuoco più bravo del mondo nella classifica planetaria, quella dei ‘Best 50 restaurants’. Graduatoria sempre discussa, certo, ma pur sempre la più prestigiosa.

Eppure i suoi inizi non furono facili. Gli studi di giurisprudenza non gli piacevano proprio, anche se probabilmente Bottura sarebbe stato un buon avvocato: sa parlare e convincere, ha metodo e precisione, ha anche una notevole cultura generale. E invece a 24 anni dice addio ai corsi universitari e rileva una trattoria nel Modenese, a Campazzo. Lì apprende le basi della tradizione gastronomica, impara e conoscere e selezionare le grandi materie prime della cucina modenese ed emiliana: le carni, il parmigiano reggiano, l’aceto balsamico, i salumi, le verdure. Nel 1995 apre, nel centro di Modena, l’Osteria Francescana.

Pochi mesi dopo, nello stesso anno, sposa una bella ragazza di Washington che ha cominciato a lavorare con lui. Si chiama Lara Gilmore, negli Usa si occupava di arte e di editoria, con un sogno nel cassetto: il cinema. La Francescana, Bottura e i loro due figli diventano la vita di Lara. C’è sempre lei a ispirare, sostenere e promuovere ogni iniziativa dello chef: le campagne contro lo spreco alimentare, l’avvio di nuovi locali, le iniziative di solidarietà che portano all’apertura di refettori per i senza casa in Italia, in Brasile, in Messico. O una scuola che insegna a preparare la pasta fresca a bambini con gravi problemi cognitivi.
Da subito, Bottura viaggia e impara. Lavora con maestri come Georges Cogny e Alain Ducasse. Nel 2000 Ferran Adrià lo invita al Bulli, il ristorante su una spiaggia della Costa Brava che sta cambiando i metodi, la storia e la filosofia della cucina innovativa. Adrià è nato nello stesso anno di Bottura, 1962, solo qualche mese prima. Ma è un protagonista assoluto. La sua cucina molecolare cambierà l’alfabeto della moderna gastronomia, tra polemiche feroci e attacchi violenti a metodi e strumenti che sembrano appartenere a un chimico, più che a un cuoco. Sul podio dei ‘Best 50’, Adrià salirà per ben cinque volte, nel 2002 e poi dal 2006 al 2009.

Per Bottura è un incontro decisivo. Lavorando con Adrià il cuoco modenese mette a fuoco idee e progetti. I capisaldi sono apparentemente semplici: conoscere a fondo la tradizione, cercando di prendere il meglio del passato e portarlo nel futuro. Inseguire ossessivamente la perfezione tecnica e l’eccellenza del prodotto, non rinunciare mai alla fantasia e alla progettualità. “Se smettessi di sognare, smetterei di cucinare”, diceva in quegli anni.

Uno dei primi e più celebri piatti di Bottura ne racconta il metodo, meglio di tante parole. Si chiama ‘bollito non bollito’. È un meraviglioso esercizio di tecnica innovativa, amore per la propria terra, raffinatezza della presentazione. Il punto di partenza è il bollito misto, un classico dei pranzi domenicali delle famiglie emiliane. La cottura delle diverse parti di carne non avviene però nel brodo, ma in sacchetti sotto vuoto, a bassa temperatura. In questo modo si evita che i sapori della carne si disperdano nel liquido di cottura. Sul piatto, i diversi tagli vengono allineati in piccoli pezzi squadrati, più o meno alti, che possono ricordare la skyline di New York.

In tanti altri memorabili piatti del cuoco modenese non cambia la logica: massimo rispetto del passato, massimo sforzo verso il futuro. Così sono nate le ‘cinque stagionature del parmigiano reggiano’, il ‘camouflage’, la ‘patata che spera di diventare tartufo’ e un dessert che Bottura chiama ‘Oops, mi è caduta la crostatina’.

In un bel libro pubblicato pochi anni fa (Vieni in Italia con me) lo chef spiega, senza pedanti lezioni, quanto possano essere simili e comunicanti certi universi apparentemente lontanissimi fra loro: la cucina, l’arte contemporanea, la musica. Geniale, appassionato, colto e istrionico, Bottura cita Beuys e Ai Wewei, parla del suo lavoro con un’emozione e una passione che a volte solleva facili ironie sul web. Qualche moralista da social network ne fa, sbagliando, i’icona di un lusso sfrontato e irraggiungibile, dei menù da 300 euro, del dorato carrozzone dei cuochi da palcoscenico che ormai fanno più spot che arrosti. Bottura non è questo e non c’entra con tutto questo. Non va quasi mai in televisione, è spesso in cucina anche se non si direbbe, mantiene la freschezza e le motivazioni di un ragazzino, è l’idolo di chi ha lavorato con lui e delle migliaia di ragazzi che sognano di poterlo fare.

Provoca, scuote, inventa, costruisce. Soprattutto, è uno straordinario e inestimabile spot mondiale del marchio Italia, dell’enorme e avvilita ricchezza della cultura nazionale. Qualcosa di simile sono stati Enzo Ferrari, Giorgio Armani, forse Gianni Agnelli e pochi altri. No, Bottura non è l’odioso campione di un sistema idiota, in cui i fornelli valgono più delle cattedre. Certo, il sistema è idiota, anche per colpa di certi sopravvalutati fenomeni dell’alta cucina. Ma quelli come Bottura non sono la malattia, sono la cura.

È un grande cuoco. Indiscutibile, apprezzatissimo. Se frequenta ministri e politici, è per tentare di dare sostanza a qualche buona idea di solidarietà e di promozione, in Italia e all’estero. Sarebbe normale, per ogni italiano, essere fiero di lui. “Ma la nostra terra ti perdona tutto tranne il successo”, diceva Enzo Ferrari, modenese anche lui. Difficile dargli torto.