Nel cuore di Trastevere, in via Natale del Grande 52, c’è un nuovo bistrot in perfetto stile parigino. Eggs è il progetto culinario ideato da Barbara Agosti, originaria di Novi Ligure e romana d’adozione che trae la sua ispirazione da un unico ingrediente: l’uovo
Raccontami come inizia l’avventura con la bottega di tiramisù Zum.
“Zum(acronimo di Zucchero, Uova e Mascarpone) nasce due o tre anni fa da un’idea quasi casuale. Tutti i ristoranti nei quali ho lavorato, sia in Italia che all’estero, dove era presente anche la pasticceria il tiramisù risultava essere il dolce vincente. Era la ‘pecora nera’ dei pasticceri. Passavano ore a lavorare per creare dolci di pregio, ma se in carta era presente il tiramisù, questo risultava vincente sempre. Su una città come Roma, dove la presenza di turisti è una ricchezza, ho pensato che avere un locale dedicato al tiramisù, il dolce più conosciuto nel mondo, ci avrebbe permesso di attrarre una enorme fetta di mercato. Abbiamo trovato la location a Campo dei Fiori e abbiamo optato per un laboratorio a vista. Una piccola bottega artigianale dove prepariamo il tiramisù quasi espresso: la vetrina ha tiramisù in esposizione che sono stati preparati al massimo due ore prima. Lavoriamo con una filiera molto corta e lavoriamo con prodotti di stagione. Ovviamente si può gustare il tiramisù classico, ma sono poi vari gusti con i quali lo ripensiamo: al pistacchio, alla nocciola o con frutti di stagione, fragola, frutti di bosco. Il biscotto Savoiardo lo prepariamo noi e da un anno ormai anche le uova sono di nostra ‘produzione’. Abbiamo aderito al progetto Bio Farm di Arianna Vulpiani, che sulla Tiberina gestisce orti biologici, e vi abbiamo impiantato i nostri tre pollai. Contiamo circa 500 galline, livornesi ed ovaiole rosse per lo più, ma presto ne avremo altre 500 per poter soddisfare il nostro fabbisogno”.
Dal progetto Zum al progetto Eggs? Raccontami di questa evoluzione.
“Non nasco pasticcera. Vengo dalla tradizione culinaria del salato: possiamo dire che si è trattato di una evoluzione salata nell’utilizzo dell’uovo come ingrediente principale della produzione. Inizialmente avevamo pensato di creare un tempio della carbonara. Per me era un po’ troppo riduttivo, non mi avrebbe permesso di lavorare con tutte le materie prime che ad oggi utilizzo. Con i soci di Puntarella Rossa e di Zum abbiamo così optato per un menù più ricco pur mantenendo un focus sulla carbonara. L’uovo resta centrale. Anzi comincia quasi a farsi strada nella cucina vegana un suo possibile utilizzo. La versatilità di questo ingrediente /alimento è tale da risultare difficile immaginare una cucina che ne faccia a meno”.
In che modo trasferisci nei tuoi piatti la passione per il tuo lavoro e per la materia prima che lavori?
“Quando hai passione, questa la si trasmette comunque. La mia cucina è particolare, poco convenzionale, prima di tutto perché ho poche ricette codificate. Questo aspetto è sì un bene, ma il lavoro da svolgere è anche più difficile. A chi lavora con me cerco di trasmettere delle attitudini che vanno oltre la codificazione stessa di un piatto. Ascoltare la materia prima, il suono della stessa nel momento in cui la si lavora sul fuoco, nel tegame; sentire gli odori, i profumi che variano sono aspetti importantissimi del processo ‘creativo’. Il soffritto sai che è pronto quando ha un determinato profumo. È inutile che stia ad indicare un tempo di preparazione. Il tempo è una variabile che dipende da molti fattori. L’odore, il profumo no”.
Chi ha maggiormente influenzato il tuo percorso professionale. Chi indicheresti come muse ispiratrici?
“Le donne della mia famiglia indubbiamente. Un mia zia materna, zia Rosetta: con il senno di poi posso affermare preparasse una cucina gourmet. Ne ero affascinata mentre preparava tutti i grandi piatti della tradizione piemontese. Anche mia nonna, sempre materna, era un’ottima cuoca ma prediligeva una cucina più popolare. E ancora la sorella gemella di mia madre con la sua rilettura moderna della tradizione. Poi ovviamente mi hanno influenzato ed affascinato altri chef. L’ultimo in ordine di tempo, uno chef giapponese al Bistrot 64 che aveva preparato uno spaghetto di patate con burro e alici. Lo spaghetto di patate l’ho introdotto in una delle versioni con cui preparo la carbonara”.
Cosa pensi della cucina statunitense?
“Sono stata più volte negli Stati Uniti e come in tutti i paesi ci sono vari tipi di cucina: al nord, al sud. Se parliamo di New York, ad oggi non credo esista una vera e propria cucina newyorkese. Parlerei più di un ensemble multi etnico. Se invece dovessi parlare del sud, della Florida per esempio, indicherei sicuramente della buona tradizione della cucina creola. Di certo la cucina statunitense predilige il consumo di carne”.
Quale la provenienza degli avventori?
“Ospitiamo una clientela con diversa provenienza geografica, ma è soprattutto italiana. Il turista che ci visita cerca qualità. Molti anche i giapponesi che adorano l’uovo e la pasta. Poi ci sono americani e anche molti australiani. Insomma un po’ da tutto il mondo, ma si tratta di una clientela non improvvisata, consapevole del prodotto che offriamo”.
Spesso definisci la tua come cucina jazz. Dimmi qualcosa a riguardo.
“Sì è vero. Improvvisazione sì ma non assenza di studio e lavoro. Ti racconto un aneddoto. L’altro giorno, ad un tavolo c’erano seduti due turisti americani. Uno è un musicista e complimentandosi mi ha detto: ‘ho ritrovato nella sua cucina l’armonia di una composizione. È molto musicale la sua cucina’. L’ho ringraziato con soddisfazione. L’abbinamento musica e orchestrazione degli ingredienti è stata fatta anche da un grande maestro. Uno dei complimenti più grossi che ho ricevuto e che ricorderò per sempre me lo fece il maestro Luis Bacalov. Ero a Novi Ligure, in occasione del Festival Internazionale A.F. Lavagnino, venne a cena da me insieme a Nicola Piovani. Prima che andassero via li andai a salutare e confessai la mia immensa felicità per aver cucinato per loro. Il maestro Bacalov mi rispose: ‘sono io che ringrazio lei. Noi facciamo lo stesso mestiere, perché la sua cucina è musica’”.
Dicevamo che Eggs conserva un focus sulla carbonara. Come nasce l’idea delle varietà di carbonara?
“Noi abbiamo fatto la prima Carta delle Carbonare. C’è ovviamente la carbonara classica: non abbiamo toccato la versione tradizionale romana, sarebbe stato un sacrilegio. Per la classica utilizziamo rigorosamente guanciale di provenienza centro Italia, pepe, parmigiano e pecorino, in proporzione 30% e 70%.
Sulle varianti del piatto tradizionale, ci siamo presi delle libertà per soddisfare anche l’ispirazione creativa. Ogni carbonara ha un nome in base al colore che lo caratterizza. La carbonara verde contiene un ortaggio di stagione di colore verde: carciofi o asparagi o broccoli. Quella arancione contiene zucca. La Porpora è preparata con il petto d’anatra, adatta anche a chi non mangiasse maiale, per motivi religiosi o di altra natura. Per i vegetariani ci sono ovviamente versioni con gli ortaggi. Ne abbiamo creato tre versioni con il pesce ed una con lo spaghetto di patata: questa è una carbonara servita con una crema di pecorino alla base del piatto, lo spaghetto saltato con il guanciale ed in cima un uovo poché, cotto a 60°.
All’inizio non sapevamo se fosse malsana l’idea di azzardare a Roma una Carta della Carbonara con 11 varianti della tradizione. Il cliente invece ci ha dato ragione. Le due varianti vincenti sono la carbonara viola con la cipolla di Tropea caramellata e quella nera con il tartufo nero. In programma abbiamo anche l’idea di emettere una card carbonara che il cliente può usare e riempire di timbri per poi alla fine ricevere un premio”.
La professione dello chef è ancora declinata al maschile. La donna ai fornelli, stereotipo molto italiano, sembra indicare che l’uomo ai fornelli sia invece garanzia di vocazione e professionalità. Solo negli ultimi anni le donne hanno cominciato ad essere riconosciute sui palcoscenici degli onori. Perché secondo te, le donne chef faticano a farsi percepire con una veste di credibilità a livello nazionale ed internazionale?
“Sì è vero è ancora una professione declinata al maschile. Dal mio punto di vista questo scaturisce dal fatto che per una donna è più difficile intraprendere una professione che richiede 13, 14, 15 ore di lavoro, soprattutto se si ha anche una famiglia da seguire e dei figli. È un lavoro che richiede anche parecchio sforzo fisico. Gli ambienti per quanto finemente organizzati sono caldissimi in estate e freddi d’inverno e poi non è una passeggiata stare tante ore in piedi. Se scegli questo lavoro devi immaginare turni di almeno 8-10 ore. Questo è un primo aspetto. Il secondo aspetto, meno evidente, è un certo cameratismo di genere. Nel circuito la credibilità è sempre dello chef, anche se affiancato da una chef donna. Indubbiamente il cliché della donna ai fornelli non ha aiutato le donne a farle percepire come professioniste dell’arte culinaria. Eppure se si potesse condurre uno studio, sarebbe evidente come molti chef uomini, anche stellati, abbiano avuto alle spalle madri e donne di famiglia magari con un’osteria o un’attività che poi ha fatto un salto di qualità. Per fortuna oggi si registra un’inversione di tendenza e ci sono giovani donne chef emergenti di qualità. Per quanto mi riguarda non mi sono mai sentita discriminata”.
La chef donna che più stimi?
“Ce ne sono molte, ma cito Valeria Piccini: una passionaria della tradizione culinaria toscana, con un’eleganza interpretativa che pochi ho trovato in pochi altri”.