Il noto critico d’arte internazionale Francesco Bonami nel suo ultimo libro L’arte nel cesso: da Duchamp a Cattelan, ascesa e declino dell’arte contemporanea, nella maniera provocatoria che lo contraddistingue, afferma che l’arte contemporanea è ormai arrivata al capolinea, proprio, con il “cesso a 18 carati” dell’italiano Maurizio Cattelan, esposto dallo scorso autunno al Guggenheim Museum, dove non solo è possibile contemplarlo ma anche usarlo.
E da chi è stata sostituita l’arte? Dalla gastronomia, dagli chef stellati, in un’unica espressione dall’“arte del mangiare”. Anche il Professor Fabio Parasecoli, Direttore delle Iniziative di Food Studies alla New School di New York, nei suoi studi si interroga se il cibo oggi possa definirsi arte. Se possa essere definito la nuova avanguardia dell’arte, e se oggi gli chef siano ancora considerati degli artigiani, oppure dei veri e propri artisti. Nei loro blog, nei loro libri di cucina, nelle interviste e nelle trasmissioni televisive, infatti, esprimono chiaramente i loro obiettivi, molto simili nei toni e nelle intenzioni ai manifesti dei movimenti d’avanguardia nel passato. Oggi gli chef dialogano tranquillamente con il mondo accademico e della scienza. Sintetizzando, si può affermare oggi che un’opera di Duchamp è stata sostituita da un piatto di Massimo Bottura, Chef numero uno al mondo.

Il cibo oggi deve trasmettere un’emozione esattamente come un’opera d’arte. Anche Eataly, afferma Dino Borri, general manager e direttore acquisti di Eataly Nord America, è stata concepita come una galleria d’arte dove i produttori sono artisti e i prodotti opera d’arte:
“Raccontiamo la bellezza dell’Italia”, afferma Borri. Cambia il modo di mangiare, cambia la nostra visione del cibo. Il cibo diventa esperienza, che vuole essere unica e diversa. Un viaggio attraverso la storia, l’archeologia, la geografia, la convivialità, insomma nelle nostre tradizioni. Quel complesso di abitudini e usanze che nel corso dei secoli si sono trasmesse nella nostra terra, soprattutto per accrescere salute e benessere: questo gli americani lo stanno scoprendo e ne sono catturati.
È una nuova cultura che si sta rapidamente affermando e che considera quello della tavola uno dei piaceri più importanti della vita. Un nuovo culto della gastronomia, quindi, che si sviluppa tuttavia in contrasto e in parallelo con le industrie alimentari di massa che continuano a produrre cibo caratterizzato da elevato apporto calorico e dal ridotto valore nutrizionale, essenziale per una dieta equilibrata. Come sappiamo questo cibo “spazzatura”, come studi scientifici hanno ampiamente dimostrato, è del tutto inappropriato sia per i bambini sia per adulti, per i quali rappresenta la causa prima dell’insorgenza di diverse malattie. Fenomeno questo evidenziato dall’antropologo francese Marc Augé, il quale mette in rilievo i due fenomeni complementari di questo particolare momento della nostra società: da una parte la grande distribuzione di massa, dall’altra lo “slow food”, che tuttavia rimane un fenomeno di nicchia.
È divenuto immediatamente best seller invece, nel continente americano, un libro di Michael Pollan, In Defense of Food: An Eater‘s Manifesto, che sostiene questa tesi: “Mangia cibo vero, non troppo, la maggior parte vegetale”. L’estate scorsa un altro libro di David A. Kessler ha suscitato invece un grande interesse in America, ripreso anche dalla stampa italiana: The End of Overeating: Taking Control of the Insatiable American Appetite, ovvero La fine dell’eccessivo consumo di cibo: come tenere sotto controllo l’insaziabile appetito americano.
C’è quindi una maggior attenzione a ciò che si mangia e al singolo ingrediente. Ecco quindi che la cucina italiana che esalta la bellezza e la qualità degli ingredienti sta diventando la cucina preferita degli americani. Il cibo diviene ambasciatore del nostro Paese. Nel suo libro Al Dente, Fabio Parasecoli evidenzia proprio come l’Italia rappresenti una sorta di Mecca del cibo per gli statunitensi. E, senza dubbio, nel corso degli ultimi 50 anni, grazie ad nuovo packaging e a più sofisticati sistemi di trasporto e di distribuzione, si sono avuti profondi cambiamenti nella cultura alimentare in USA. C’è stata negli ultimi decenni una lenta e discontinua, ora sempre più veloce valorizzazione dei prodotti italiani, soprattutto provando a diffondere quell’intreccio di stili di vita, sapori, valori, storia, archeologia, geografia, ambiente e tradizione.
Contemporaneamente si sta delineando una nuova categoria di consumatori, i cosiddetti “foodies”, appassionati di enogastronomia, più educati, più curiosi e anche più “healthy conscious”, più attenti alle etichette, alle tabelle nutrizionali e all’ambiente. I “foodies” si rivolgono ad insegne a metà tra il supermarket e il negozio di specialità alimentari italiano, gli “specialty stores”, ovvero negozi specializzati di alto livello e i cui commessi sono dei veri e propri consulenti di specialità alimentari, capaci di andare incontro alle nuove e numerose richieste. Richieste di qualità, di salute e di benessere tipica dei millenials e di una fascia più anziana, che tende a considerare i prodotti naturali e biologici come una specie di rimedio contro determinate patologie. Tutti accomunati dalla stessa convinzione che il cibo sano e dello “slow food” racchiuda il pregio di far vivere a lungo e prevenire determinate patologie.
Questi consumatori di “gourmet” prediligono un acquisto sofisticato e di grande qualità. Vanno alla ricerca del prodotto autentico italiano con la garanzia di alti livelli qualitativi.
Negli ultimi decenni si è verificato un aumento di una popolazione di alto livello che vive in aree metropolitane e, soprattutto, dispone di mezzi finanziari. Le stime recenti parlano di almeno di 40 milioni, con un reddito pro capite di oltre 75 mila dollari. Non c’è, infatti, bisogno di sofisticate statistiche per comprendere che le differenze di educazione di cultura ed educazione siano alla base delle scelte alimentari. Questo nuovo consumatore vuole rapporti diretti, un rapporto che rifletta la propria identità, “si vuole in un certo senso opporre alla massificazione” evidenzia il Professor Parasecoli e “percorrere un nuovo viaggio culturale, attento alle origini del prodotto, alla storia dietro il singolo prodotto”.

“Eataly – racconta Dino Borri – è stato concepito proprio come un viaggio culturale e storico che va dal caffè al gelato passando per la birra artigianale e il vino, dai formaggi (oltre 200 etichette) alla pasta artigianale. Ideato e concepito come un grande mercato dove trovare il prodotto unico autentico e sempre di grande qualità, le nostre eccellenze tricolore anche quelle più di nicchia, e attorno i ristoranti che usano rigorosamente solo i prodotti del mercato. Un po’ come Campo dei Fiori a Roma. Siamo una bottega che vende qualità. Questo ci consente di testare i prodotti, lanciarne nuovi sul mercato americano”.
“Non bisogna mai sottovalutare il cliente e soprattutto non bisogna mai mentirgli. Buono, pulito e giusto rimane la nostra filosofia” conclude Borri. Per Fabio Parasecoli è importante puntare anche sull’origine geografica per commercializzare il prodotto italiano, in quanto può rappresentare un valore aggiunto. Nel suo libro che uscirà ad agosto, Knowing Where It Comes From: Labeling Traditional Foods to Compete in a Global Market. esamina il rinnovato interesse dei consumatori, specialmente quelli di fascia alta, per la relazione tra cibi e la loro origine sia geografica che culturale.
Il successo di Eataly lo confermano i numeri 200 milioni di fatturato tra vendita e ristorazione, 60 milioni di visitatori all’ anno. Il mercato americano richiede sempre più i prodotti tipici e unici della nostra terra. Anche perché la nostra cucina si basa su un alta qualità di ingredienti e dal sapore unico che la grande biodiversità del nostro Paese, unica al mondo, mette a disposizione. Altre cucine sono costrette a coprire i loro prodotti senza alcun sapore con salse, ricche di grassi, decisamente dannose per la nostra salute.
La nostra dieta mediterranea, considerata dalla comunità scientifica internazionale il miglior modello nutrizionale in assoluto, viene sempre più identificata con la cultura e con i prodotti italiani
“Il modello della dieta Mediterranea” riscoperto negli anni 50 da Ancel Keys, studioso del Minnesota, evidenzia il Professor Antonino De Lorenzo (direttore della Scuola di Specializzazione in Nutrizione umana dell’Università di Roma Tor Vergata), è fondato su una varietà di prodotti locali e stagionali, centrato sulla biodiversità, e, può essere adottato da ogni persona, in linea con i corretti valori nutrizionali. E – prosegue – fornisce nutrienti e componenti alimentari che hanno effetti protettivi per la nostra salute per le loro proprietà antiossidanti”. Infatti, sottolinea De Lorenzo, “studi scientifici internazionali hanno evidenziato che la dieta Mediterranea è associata ad una bassa frequenza di fattori di rischio di malattie cardiovascolari e cronico degenerative “. L’importanza della dieta mediterranea non risiede soltanto nella specificità dei cibi e delle sostanze nutritive da essa contemplate, ma anche nei metodi utilizzati per caratterizzarla, nella filosofia di sostenibilità che la caratterizza, nella preparazione secondo ricette semplici e tradizionali. Dal 2013 la Dieta Mediterranea è un patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. I suoi “precetti” sono in linea con le concezioni del nuovo, quanto antico, modello di Ecologia Integrale.
Insomma, per sintetizzare, il cibo sano e dello “slow food” hanno il pregio di far vivere a lungo. Il cibo per noi mediterranei racchiude una dimensione sociale, anche se vuoi economica culturale, salutistica, un luogo spazio-temporale di dialogo e di scambio.
Plutarco nel I secolo d.C. affermava che “ci si siede non per mangiare bensì per mangiare insieme”. Aspetti che gli americani stanno ora riscoprendo e di cui si sono rapidamente innamorati. Questa revisione dell’immaginario Italia come luogo di uno stile di vita più sano e del buon gusto iniziata negli anni 70/80 (grazie anche allo studio del Seven Countries di Ancel Keys) e proseguita negli ultimi anni affermandosi come sinonimo di identità, tradizione, cultura (l’origine dei piatti, il loro nome, il significato dei gesti e le consuetudini) e di quei valori di solidarietà e commensalità , luogo del buon gusto , ma soprattutto di un corretto stile alimentare, può senz’altro produrre una crescita significativa delle esportazioni e, quindi, anche la nascita e il rafforzamento di piccole e medie aziende locali e anche delle grandi imprese nazionali.
Nel caso del nostro Paese possiamo affermare che le nostre tradizioni gastronomiche, il nostro immenso patrimonio culturale fanno parte del nostro Dna che deriva da una storia millenaria. Dobbiamo, quindi, trasmettere questo nostro patrimonio di saperi. Gli USA sono divenuti un mercato particolarmente sensibile alla qualità’ e autenticità e alla storia del prodotto. E l’Italia ha un ruolo decisamente rilevante sul mercato americano anche dei prodotti naturali/bio. Il nostro Paese ha conquistato anche il primato europeo nel biologico con quasi 50 mila aziende ed è l’unico con 285 specialità Dop /Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc /Docg.
Il mercato americano rappresenta per il nostro Paese il primo paese per import di molti prodotti. Nonostante la distanza geografica gli Stati Uniti rappresentano il terzo mercato più importante per i prodotti italiani dopo quello tedesco e quello francese
Nel complesso le esportazioni verso gli USA costituiscono il 10% delle esportazioni totali in valore e il paese si colloca al terzo posto dopo Germania e Francia. Infatti, le esportazioni, secondo i dati ICE verso il mercato americano sono in aumento del 4% rispetto al 2015, anno in cui il nostro export aveva già fatto registrare un incremento del 22%.

Nelle esportazioni risultano maggiormente rilevanti i comparti “vini e mosti”, che da soli rappresentano il 35% dell’export totale nel 2016, “oli e grassi”14% e cereali riso e derivati” (12%), quindi sommando i tre comparti essi rappresentano il 35% dell ‘export totale nel 2016. L’attuale indebolimento dell’euro nei confronti della divisa americana favorisce senza dubbio le nostre esportazioni e le rende senz’altro più competitive. L’Italia si conferma il primo fornitore di vino degli USA, con una quota quasi del 40% del totale ma, soprattutto, rappresenta il principale prodotto agroalimentare Made In Italy. Secondo i dati forniti dall’Istituto dell’Italian Food and Wine, Istituto fondato nel 1983 da Luigi Caputo per promuovere l’immagine e il prestigio dei vini, della gastronomia e dei prodotti alimentari in Italia. L‘Italia mantiene la sua leadership sia in quantità che in valore, mentre si continuano a registrare variazioni nella graduatoria degli altri paesi fornitori. Seconda si attesta l’Australia e terzo il Cile, mentre quarta è la Francia, da sempre il nostro avversario più difficile. Mentre per quanto riguarda gli spumanti italiani, il nostro Paese distacca completamente la Francia, in quantità ma purtroppo viene superata in valore. In questo settore occorre evidenziare che è stato compiuto uno sforzo sinergico dell’ICE e di altre istituzioni italiane, con vaste campagne per la promozione del prodotto e dei produttori. In questo contesto un ruolo lo ha avuto anche la presenza dell‘Istituto dell’Italian Food and Wine sul territorio statunitense, con una conoscenza concreta e pragmatica del mercato americano, delle sue complesse dinamiche commerciali, del consumatore e dei mezzi di comunicazione, dando un contribuito alla diffusione del vino tricolore.
“Nel passato abbiamo lavorato per far conoscere il prodotto italiano e creare la domanda ora dobbiamo continuare a lavorare e investire sulla domanda, non aumentare l’offerta” sostiene Luigi Caputo. Per avere successo sul mercato statunitense bisogna conoscere bene le dinamiche commerciali presenti in USA. “Credo sia opportuno – aggiunge Alessandro Sita – importatore con 20 anni di esperienza nel settore (10 in Europa e 10 nel continente americano) e una grande passione per il prodotto di qualità – avere un coordinamento di gruppo, una forte logistica e politiche comuni”. Dobbiamo in sintesi “consolidare gli sforzi e avere un forte piano di marketing. Oggi non si vende la cucina italiana ma il prodotto italiano. Il consumatore è più attento, più istruito, più attento alla salute e all’ambiente e punta sull’eccellenza. Occorre puntare su prodotti di grande qualità – continua Alessandro Sita -, mai abbassarsi a compromessi ma soprattutto mai mentire al consumatore”. Nel vino siamo i primi, ma dobbiamo migliorare nel food: “Abbiamo l’oro così vicino ma dobbiamo ridisegnare le nostre politiche. In questo particolare momento si può davvero fare qualcosa di unico e molto valido. Non dobbiamo essere rigidi anzi, ma dobbiamo esserlo sulla qualità”.
È dello stesso parere Roberto Caporuscio, Presidente della Foundation Pizza Accademy (il cui scopo è quello di promuovere la vera e autentica pizza napoletana) e responsabile dell’Associazione Pizzaiouli Americani, da 20 anni in America dove con il suo socio Antonio Starita gestisce tre ristoranti: “Il cliente oggi è più curioso, attento, vuole mangiare bene. Spiego loro che per fare una buona pizza devo usare la farina italiana, perché il nostro grano è unico, ha una maturazione più lenta, non avrei lo stesso risultato con la farina locale. Il pomodoro lo stesso e così tutti i nostri ingredienti. Solo così è possibile avere qui a New York una vera pizza napoletana”. Per Caporuscio, “la chiave del successo è essere rigidi sulla qualità, sulle materie prime, scegliendo solo prodotti italiani e selezionati, rigidi anche sulle tecniche di lavorazione”. Ma soprattutto bisogna educare il cliente, perché educando si arriva a far capire perché un prodotto a volte può costare di più. Cosa c’è dietro un prodotto, Dobbiamo trasmettere la nostra cultura gastronomica. Per questo da anni oramai facciamo corsi anche rivolti ad amatori, per tutti gli Stati Uniti ed è nata la prima scuola per pizzaioli, per diffondere e valorizzare un’arte. Mia figlia Giorgia si dedica ai corsi anche ai più piccoli perché la vera educazione comincia da li”.
Il momento è decisamente ed inequivocabilmente favorevole. Bisogna essere, tuttavia, molto attenti e vigili, il mondo cambia rapidamente e sui mercati si sono imposti nuovi protagonisti che potrebbero rivelarsi avversari forti e potenti. Quindi, maggiore conoscenza del mercato e della realtà americana, magari prendendo delle expertise diverse che completino il quadro d’insieme, puntando sempre sulle eccellenze italiane e affinando e ottimizzando le strade della distribuzione. Proprio, la distribuzione richiede uno studio più attento e attuale del mercato americano, occorre migliorare i mezzi di trasporto, semplificare i servizi e usare le nuove tecnologie. Le nuove metodologie di consegna hanno tolto qualsiasi barriere, si comunica direttamente con il consumatore finale, non c‘è alcuna pubblicità di mezzo. Basta pensare alla rivoluzione di qualità che ha voluto compiere qualche settimana fa Amazon comprando Whole Foods. Bisogna andare insieme nel mondo sembra essere il messaggio univoco. Unire gli sforzi. Pensare globale, ma mantenere la nostra identità, la nostra cultura, puntando sulla valorizzazione del prodotto italiano.
L‘America è senz’altro la più grande piattaforma con una grande potenzialità e un impatto decisamente importante sul resto del mondo. Senza dubbio un mercato complesso in continua evoluzione, con grandi differenze interne ma dove esistono ancora tante realtà inesplorate. E importante restare uniti anche per combattere quello che viene definito “Italian Sounding”.

Purtroppo il fenomeno è molto radicato, inutile nasconderlo. Il valore del mercato è stimato in oltre 3 miliardi di dollari di consumo contro un valore di importazione dall’Italia intorno al miliardo. Secondo i dati di Confindustria il mercato del falso prodotto italiano causa una perdita di oltre 54 miliardi di euro all’Italia. Rispetto al passato il prodotto “italian sounding” di terza generazione è migliorato, sia in qualità che nella presentazione più accurata, e con prezzi molto vicini ai prodotti italiani importati. A parte, esiste sempre il prodotto “italian sounding” che mantiene standard di bassa qualità e che quindi punta ad una fascia di mercato più bassa, che si appropria di parole, di colori e di immagini che richiamano l’Italia.
Tra i prodotti più imitati, il parmigiano reggiano e il grana padano.
Per comprendere l’Italian sounding bisogna, tuttavia, conoscere la storia dell’emigrazione italiana in America e tutte le sue dinamiche, la sua evoluzione. Sono stati i primi emigranti a favorire le prime esportazioni di prodotti italiani perché legati culturalmente alla loro terra d’origine. I nostri emigranti spendevano molto sul cibo perché il cibo per noi italiani fa parte della nostra identità. Ed è il cinema a decretare il successo dell’italian sounding, a cominciare dagli anni 70 e per finire poi con il film Big night del 1996. Dobbiamo però non demonizzare il fenomeno, se un prodotto viene imitato è perché piace e ha inequivocabilmente successo”. Non dobbiamo puntare ad uccidere il fenomeno ma trattiamolo come un ponte per lanciare i nostri prodotti. Dobbiamo avviare politiche comuni, unire le strategie e, come sottolinea Borri, educare il consumatore.
Inoltre “occorre investire – come sostiene De Lorenzo – sulla consapevolezza del consumatore che rappresenta la sfida proattiva della medicina moderna, sempre più attenta alla prevenzione efficace. L’alimentazione diviene una delle azioni più qualificanti di un nuovo Umanesimo che preserva l’ambiente, salvaguarda la salute, conserva la memoria dei sapori e delle emozioni; senza memoria nessuna civiltà avrà un futuro migliore”. Rendere il consumatore consapevole delle sue scelte alimentari, diviene ora fondamentale. Dal 2015 l’ICE con il Ministero dello Sviluppo Economico e in collaborazione con il Ministero delle Politiche agricole e Forestali ha avviato un grande e importante programma di promozione, che include un piano di comunicazione al consumatore americano per sviluppare la conoscenza e la capacità di riconoscere i prodotti autentici italiani. La strada è senza dubbio quella di unire cibo, cultura, educazione e sviluppo. Utopistico? Lo scrittore Mario Soldati diceva che “per conoscere un popolo devi mangiarlo e berlo”. Uniamoci allora, andiamo insieme e facciamo conoscere il nostro Paese.
r