Sbarca a New York, e per la precisione al Brooklyn Film Festival, il primo film di Kristian Gianfreda “Solo cose belle”.
Il film, opera prima di Giaffreda che da venti anni gira video e documentari sociali è un film dai temi importanti: parla di razzismo, di rifugiati e di disabilità eppure non si fa che ridere dall’inizio alla fine. E commuoversi anche.
“Solo cose belle” si inserisce perfettamente nel tema dell’ottava edizione del Brooklyn Festival che è “Gathering” (“Raduno”), inteso come celebrazione di quei registi che pensano fuori dagli schemi e che si cimentano a raccontare le realtà ‘più difficili’, parafrasando il direttore e creatore del festival, Marco Ursino.
Il Festival è nato 22 anni fa e quest’anno ha raggiunto dei numeri record per le sue dieci giornate (31 maggio-9 giugno): le proiezioni sono spalmate su più sale (Wythe Hotel, Windmill Studios, Alamo Drafthouse, NY Media in Dumbo ecc.), ci sono ben 133 film tra lungometraggi e cortometraggi e un misto di commedie e documentari.
Degno di nota è il numero delle donne registe rappresentate (46% sul totale) e dei paesi che i film rappresentano, ben 30 tra cui l’Italia, proprio grazie a Giaffreda.
“Solo cose belle” parla di un microcosmo, come dice il regista , di una casa famiglia che un’associazione umanitaria, la Comunità Papa Giovanni XXII fondata da Don Oreste Benzi nel 1968, ‘manda’ a vivere in un paesino della Romagna. Un paesino di gente ‘perbene’ che vuole starsene con chi più gli assomiglia. La casa famiglia è rumorosa, è uno ‘zoo’ come dice Kevin, l’adolescente ‘adottato’: c’è un richiedente asilo nigeriano, una ex prostituta, due ex ladri, due persone con seri handicap…“Stiamo attenti a non mischiarci con quelli la” dicono in paese.
Seppure questa famiglia si sia trovata insieme per caso, è più forte e unita dell’altra famiglia del film, quella del sindaco che sembra tenere più alle elezioni che a sua moglie e a sua figlia Rebecca.
“Non c’è una famiglia giusta o una famiglia sbagliata, sono le persone a decidere qual è il modo migliore per stare insieme per essere più felici, qualche volta bisogna rompere degli equilibri per trovare la propria strada. Benedetta, infatti entra in rottura con la sua famiglia innamorandosi del ragazzino della Casa” – aggiunge Giaffreda.
“Solo cose belle”, è una “commedia sociale”, semplice, in senso buono perché ha segnali e significati immediati. La piazza, gli aperitivi al bar, il campanile, il centro storico tutto è familiare e riconoscibile. La bellezza della nostra Italia sono in contrasto con il bigottismo, la fotografia di Luca Nervegna si allunga sul ciottolato da paesino medievale con le idee medievali.
Il paese dell’Emilia Romagna potrebbe essere il nostro paese, Benedetta nostra figlia, il sindaco il nostro sindaco. Tutti i personaggi del film sono ‘banali’ perché li abbiamo già incontrati e proprio nella vita di tutti i giorni.
Quando la macellaia del paese e poi i piccoli politici comunali dicono che è arrivata l’Isis perché “C’è un profugo che gira per il paese con un borsone enorme, cosa contiene? Cosa ha rubato” il pubblico in sala scoppia a ridere. Il sorriso è amaro perché sono battute che si fanno al bar sotto casa per davvero, le abbiamo sentite anche quelle.
“Only good things”, cosi tradotto in inglese, è un film indipendente e low budget che ha saputo mettere insieme un cast incredibile di attori professionisti e non e soprattutto di persone con disabilità non trascurabili.
Giaffreda racconta che per trovare “Ciccio” il ragazzo asiatico disabile del film, hanno visto almeno 250 persone perché “volevamo qualcuno che fosse davvero a proprio agio e che avesse l’energia di recitare in un film”.
“Facendo due sessioni di prova prima di iniziare le riprese sul set, abbiamo creato un clima di collaborazione tra tutti gli attori e soprattutto i nostri attori disabili sono stati incoraggiati e supportati”.
Quando si chiede a Giaffreda da dove è venuta l’idea del film lui confessa: “Ho incontrato questo microcosmo diciotto anni fa e ho sempre pensato che una casa famiglia fosse una realtà che oggi ha qualcosa da dire al mondo”. “Realizzo e produco documentari e spot da quindici anni sul mondo dell’emarginazione e ho fatto anche documentari che hanno avuto successo, ma non sono mai riuscito a raccontare tutto il bello che volevo. Un documentario è sempre troppo rigido e mi sembrava di parlare sempre alle stesse persone. Per arrivare agli altri, ho dovuto trovare uno strumento diverso. Il cinema è potentissimo arriva con facilità a tante persone.”
“Come si ci sente a presentare il proprio film a New York”? “E’ emozionante, New York è il centro del mondo. Questo progetto è piccolissimo, ma portarlo a New York rende universale questo sforzo che è partito dalla provincia italiana, gli da una grande dignità, una grande forza. Abbiamo creduto molto al fatto di poter raccontare che oggi c’è bisogno di una strategia diversa, opposta alla chiusura”
“Pensi che questo film potrebbe essere ambientato a New York”? “Certamente, la paura del diverso è universale”.
Il film che in Italia è uscito da poco meno di un mese, si può vedere al Brooklyn Film Festival venerdì 7 giugno, i biglietti si comprano qui https://www.brooklynfilmfestival.org/tickets