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May 29, 2018
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La dura vita delle borgate romane secondo i gemelli D’Innocenzo

Il 3 giugno viene presentato al Lincoln Center "La terra dell'abbastanza", esordio dei gemelli registi Damiano e Fabio D'Innocenzo.

Giuseppe SacchibyGiuseppe Sacchi
La dura vita delle borgate romane secondo i gemelli D’Innocenzo
Time: 3 mins read

La storia  è ambientata nella periferia estrema di Roma, già al centro di diversi film e serie tv degli ultimi cinque anni (“Suburra”, “Il più grande sogno”, “Cuori puri”, “Il contagio”, solo per citarne alcuni), ma “La terra dell’abbastanza”, opera prima dei ventinovenni fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, non è l’ennesimo film sui cosiddetti ‘coatti’ dei quartieri degradati quanto piuttosto un’indagine su che cos’è un’amicizia, su quali basi debba basarsi e sulla possibilità che essa sia d’aiuto reciproco per crescere.

“La terra dell’abbastanza”, di Damiano e Fabio D’Innocenzo

Marco (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) sono amici fin dalle scuole elementari. Una sera, dopo un kebab consumato insieme in macchina tra le risate, in un parcheggio deserto, i due investono un uomo per sbaglio. Di fronte alla prospettiva del carcere, e quindi della fine dei sogni, scelgono la via più facile, quella del silenzio, favorita dalla tarda ora e dal luogo dell’incidente. Passano ore e giorni a “corazzarsi” dai sensi di colpa, poi improvvisamente “una svolta” che presenta loro l’incidente come la possibilità di poter finalmente uscire dall’asfissiante mondo della periferia, fare dei soldi e divertirsi: l’uomo che hanno ucciso è un pentito di un clan della zona e togliendolo di mezzo i due si sono guadagnati la possibilità di affacciarsi sul mondo criminale, avere un ruolo nel traffico di droga e prostituzione.

Max Tortora e Andrea Carpenzano in una scena de “La terra dell’abbastanza”

Insomma, il modo alternativo per liberarsi dai sensi di colpa è per loro quello di abituarsi al male. E quanto sia facile assuefarcisi è il tema pregnante di “La terra dell’abbastanza”, che sarà proiettato il 3 giugno al Lincoln Center nell’ambito della rassegna Open Roads: New Italian Cinema 2018. Il contesto in cui si troveranno ad agire li renderà impermeabili a qualsiasi riflessione etica, indifferenti di fronte a ciò che viene loro chiesto (prostituire minorenni spacciare droga, uccidere). In un ambito sociale in cui la persona è ridotta a merce, resta poco spazio per i sentimenti. «In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza – hanno detto i due fratelli registi – i nostri protagonisti si spingono oltre il limite della sopportazione: vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla. Purtroppo lo scopriranno sulle proprie spalle: si può fingere fino alla fine, perché il sangue non fa più impressione e la paura cessa di essere un meccanismo di difesa».

Matteo Olivetti in una scena de “La terra dell’abbastanza”

Intorno ai due giovani non ci sono solo i furbi della malavita, ma anche il padre di Manolo (Max Tortora) e la madre di Marco (Milena Mancini) che hanno rinunciato di fatto al loro ruolo genitoriale, uno per frustrazione e l’altra per debolezza. Un’insoddisfazione esistenziale, familiare e sociale, avvertita dai figli ma alla quale non sono capaci di reagire, sottomettendosi al clan. Al cast si aggiunge un comprimario Luca Zingaretti nei panni del boss malavitoso.

Il film dei fratelli D’Innocenzo è un grido d’allarme sulla deriva tentatrice del “tutto e subito, costi quel che costi” che spesso i giovani d’oggi non sono preparati ad affrontare, non solo per colpa loro: un grido che – attenzione – non riguarda però solo le periferie.

“La terra dell’abbastanza” è sociologicamente un film scomodo, abbastanza riuscito nella sua drammaturgia, anche se con un linguaggio romanesco di difficile comprensione, in alcuni momenti, anche per chi ha vissuto 20 anni nella Capitale e – senza moralismi – talvolta eccessivo nel ricorso al turpiloquio.

Se comunque “il buongiorno si vede dal mattino”, i fratelli D’Innocenzo sono su una strada che si presenta piena di soddisfazioni future.

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Giuseppe Sacchi

Giuseppe Sacchi

Sono marchigiano, ma non esattore delle tasse. Amo il cinema e le persone, perché le loro vite sono film di vario genere, dal comico al thriller. Ho vissuto a New York 16 anni lavorando per "America Oggi", "Paese Sera", riviste Moda e King. In Rai ho condotto per 7 anni il programma "La Notte dei Misteri" e poi il giornale radio notturno. L'età non è quella della carta di identità ma quella che volete darmi.

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