uscita finalmente a metà febbraio Vinyl, la serie televisiva statunitense creata da Mick Jagger , Martin Scorsese , Rich Cohen e Terence Winter per HBO (in Italia a trasmetterla è una rete Sky). La serie racconta la scena rock newyorchese degli anni ’70, dal punto di vista del presidente dell’American Century Records, una casa discografica un po’ decotta – la scena musicale classica è ormai matura e sta per imporsi la rivoluzione del punk – in procinto di essere assorbita dalla tedesca Polygram.
Richard Hell, uno dei punkettoni doc di New York, al quale uno dei personaggi di Vinyl – Kip Stevens, interpretato da James Jagger, figlio del cantante degli Stones – è chiaramente ispirato (l’altra fonte è con ogni probabilità Jonnhy Thunders), si è detto deluso dalla ricostruzione di Scorsese, centrata sul mondo del business, anziché sui musicisti. Ma in verità, quantomeno dopo aver visto il primo episodio, l’operazione sembra riuscita. I suoi ideatori hanno voluto probabilmente evitare l’effetto Saranno famosi, abbastanza scontato se i protagonisti fossero stati i musicisti stessi.
Naturalmente siamo in piena mitologia sesso-droga-rock ‘n’ roll. Ci sono le orge, i manager che viaggiano sui jet privati e tirano coca, c’è persino un delitto, piuttosto efferato. Ci sono alcune star dell’epoca, come i Led Zeppelin in procinto di esibirsi al Madison Square Garden (bruttino il sosia di Robert Plant) e le New York Dolls, gruppo seminale, in bilico fra glam-rock e punk. Ma le cose più interessanti di Vinyl non sono queste. Sono innanzitutto una sceneggiatura che gioca con i tempi, spesso rallentandoli, come a imitare gli effetti di alcol e droga (e ci riesce benissimo).
E poi c’è la New York dell’epoca, quella di Taxy Driver, sostanzialmente, o di Walk on the Wild Side, molto diversa da quella attuale, una metropoli dura, selvaggia, dove se finisci a ficcare il naso nel quartiere sbagliato, in cerca della nuova musica (quella non è solo la stagione del punk, è anche la stagione della disco, e di lì a poco del primo rap), può capitare che ti venga puntata senza tanti complimenti una pistola in faccia.
Ci sono anche momenti più surreali, inventati di sana pianta, come il palazzo che crolla sulle Dolls e il loro pubblico durante l’esecuzione di Personality Crisis. Ma non si sconfina nella rappresentazioni degli universi psichedelici che ha fatto la fortuna di film come Paura e delirio a Las Vegas (o delle prime opere-rock alla Tommy): il tutto, alla fine, si tiene in equilibrio, risultando così forse più accessibile anche agli adolescenti di oggi, per i quali quella stagione e quei protagonisti sono universi sconosciuti.
C’è, alla fine, in Vinyl, l’amore per la musica? C’è la passione che animava la scena rock in quegli anni? Nella prima puntata certamente sì. C’è almeno una sequenza in cui essa esce in maniera memorabile: quella del protagonista Richie Finestra (interpretato da Bobby Cannavale) completamente ubriaco, che finge di suonare una Gretsch, la chitarra rettangolare di Bo Diddley, in piedi sul divano di casa. Lì c’è tutto. O meglio: ci sono tutte quelle persone, giovani e meno giovani, che in ogni parte del mondo, suonavano e ancora suonano strumenti immaginari nel chiuso delle loro stanze, ascoltando i loro musicisti preferiti. Per essere poi sorpresi – e se del caso severamente rimproverati – dai loro genitori-coniugi. Perché il rock, nonostante sia stato in quegli anni un motore formidabile dell’industria dello spettacolo (un’industria oggi molto cambiata, se non altro a causa della digitalizzazione della musica), non è roba per tutti. Ed è questo il suo bello.
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