Assistere a una produzione indipendente di qualità nel cuore di New York City non è difficile. Più di rado capita di imbattersi in una première al prestigioso Lincoln Center (avete presente The Metropolitan Opera House?) di un film italiano appena uscito. Ancora più raro quando il film è ben confezionato. L'horror Oltre il Guado (Across the River) è un film interessante nonostante alcune fragilità di scrittura, che vengono compensate da una regia intelligente e sobria, da una scenografia veramente da brividi, pur nella sua essenzialità, e dal contesto naturale che è – e rimane anche a proiezione terminata – il vero protagonista della storia. Più che il fiume del titolo, sono i boschi e le foreste al confine tra Italia e Slovenia ad attirare l'attenzione e a folgorare l'occhio dello spettatore.
La vicenda dell'etologo Marco Contrada, la spirale morbosa e nefasta di avvenimenti oscuri e notturni che si svolgono nel borgo abbandonato – epicentro della narrazione – appaiono affascinanti pretesti per descrivere i veri protagonisti del film, ovvero gli elementi primordiali: l'acqua, il fango, le foglie e la terra di questi boschi tanto maestosi quanto inospitali. Viene da pensare – e il regista Lorenzo Bianchini dissemina nel suo film riferimenti che sostengono questa idea – al periodo della resistenza, e alla durezza di quella stagione in un ambiente del genere.
Se il film presenta – come spesso avviene per le piccole produzioni – elementi diseguali come la fotografia e gli effetti sonori, assolutamente incisive invece sono le scelte di dotarsi di una moltitudine di sorgenti visive, capaci di creare un effetto perturbante, diffuso in tutto il film. Microcamere, super 8, webcam, distorsioni visive, fototrappole diventano strumenti narrativi di grande peso e intensità, capaci di contrappuntare con grande varietà di punti di vista il silenzio che pervade tutto il film. Coinvolgente, nella sua essenzialità, la logica straniante delle voci e delle differenti lingue (pochissimo) utilizzate. Across the River ha la caratteristica pressoché unica di essere un film totalmente privo di dialoghi (se si escludono quelli in sloveno degli ottimi Renzo Gariup e Lidia Zabrieszach). La voce del protagonista interpretato da Marco Marchese viene udita solo in occasione delle sue iniziali registrazioni di dati e informazioni scientifiche. Poi è il mormorio del bosco e dei suoi abitanti ad avvolgere lo spettatore e a trascinarlo nell'abisso in cui questa storia sprofonda.
Un cinema povero, potremmo definirlo un horror della fame, come sarebbe piaciuto a Glauber Rocha (a proposito: il protagonista non mangia praticamente mai, è anche questo, a suo modo, topos denso e determinante tra le scelte che governano il film) che fa dell'acqua la sostanza cardine della paura, sintomo dell'ingovernabilità delle forze che spingono il passato a tornare e a soggiogare il presente…
Un film che è anche, a nostro parere, un esperimento fresco, fuori dai soliti schemi e circuiti del cinema italiano – sempre uguali – anche per le sue caratteristiche produttive low budget che spostano il baricentro dal punto di vista geografico (il Friuli) e cambiano le consuete partnership (l'Università degli Studi). Cose a cui in Italia non siamo abituati. L'augurio – questo il solito, sì – è che questo film possa farsi strada a livello distributivo. Se lo merita.