La prima chitarra la portò a casa suo fratello, di sette anni più grande di lui. Gigi. Era la chitarra del nonno. Nato e cresciuto a Roma, come tutta la sua famiglia. Che prima di ogni altro, gli insegnò la musica e i suoi dettagli.
Per entrare si fa strada in silenzio, tra le persone rimaste in piedi, appoggiate al muro. Lì per ascoltarlo. È la sua prima volta a New York. Anche come cantante, in tanti anni di attività. Quasi intimidito, percorre lo spazio che separa l’ingresso dal palco, mentre nell’auditorium alcuni riconoscono la melodia di “Viva l’Italia”. Ha il passo svelto, ma tiene la testa bassa. Non indossa il cappello ed è vestito di nero. Porta una camicia e un maglione scuro e dei pantaloni semplici. Non è lì per cantare. Ma per raccontare le sfumature della sua vita artistica.
Per presentarlo, Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana NYU Zerilli-Marimò, utilizza cinque parole: “Una leggenda della musica italiana”. E, come una leggenda, Francesco De Gregori è su quel palco. Sospeso a metà. Tra l’uomo e il cantautore. Tra gli applausi appassionati che lo accolgono e il silenzio, tra una domanda e l’altra. Prima di sedersi, ringrazia la platea, di fronte a lui. Con un gesto sobrio. Ed elegante. Lucio Dalla l’aveva soprannominato “il Principe”. Aveva iniziato a chiamarlo così durante un tour fatto insieme. Sorride, quando glielo ricordano. Un appellativo affettuoso, che gli anni gli hanno cucito addosso. E che lui, ridendo, non prende nemmeno troppo sul serio: “Lucio era più sociale di me”, spiega facendo riferimento al suo essere più solitario. Ridono tutti.
Il pubblico in sala conosce l’italiano, ma lui parla e risponde in inglese. Ogni tanto, chiede conferma: “Si dice…?”. È lì per raccontare una parte dell’incanto contenuto nelle sue canzoni. Ripercorre il suo percorso artistico attraverso i ricordi: la prima musica ascoltata, le influenze, gli episodi di una vita racchiusi in versi che attraversano generazioni. Poi la cultura: letteratura, cinema, arte, poesia. Cita Shakespeare, il Dadaismo, la Divina Commedia, Picasso e Fellini.
La prima domanda del direttore della Casa Italiana NYU riguarda le sonorità della sua musica e le sue ispirazioni: “La prima musica ascoltata era quella che sentiva mia madre: l’opera. La Traviata, Puccini. Non riuscivo a comprendere le parole, anche se erano in italiano, perché la lirica è complessa. Poi mio fratello, più grande di sette anni, mi fece ascoltare Elvis Presley. Un genere molto diverso da quello che ascoltava mia madre (sorride, ndr). Sicuramente, le radici della mia musica, in parte, appartengono all’America. La prima canzone di Elvis che ricordo è ‘It’s now or never’, la versione americana di una celebre canzone napoletana. ‘O sole mio’”. L’America, De Gregori, l’ha conosciuta nella musica di Bob Dylan, al quale ha dedicato tanto lavoro, nei film, nelle “western song” e nei fumetti.
Le canzoni che preferisce cantare? “Solitamente le ultime scritte. Amo cantarle, quasi per impararle meglio”, spiega a chi, tra il pubblico, gli ha fatto questa domanda. Enigmatico ed ermetico. I suoi testi hanno attraversato generazioni, raccontando, per immagini, mondi onirici e, a volte, lontani dall’ordinario. “Le persone trovano nelle canzoni parte della loro vita: perché le canzoni sono cose semplici. Sono più semplici di un film o di un libro”. Perché una canzone, come qualsiasi frammento d’arte, è per De Gregori “come un puzzle aperto: è qualcosa che non ha soltanto una soluzione, non è un’equazione. Non ha soltanto una risposta, ma diverse interpretazioni. I film che ho amato, nella mia vita, sono aperti a diverse interpretazioni. Un titolo su tutti: ‘Otto e mezzo’, di Federico Fellini. L’ho guardato dieci o dodici volte e, ogni volta, vi ho trovato qualcosa di diverso. Questo è il potere di questo film. E questo è il potere delle canzoni”.
Se ne va sulle note de “La donna cannone”. Uno dei testi più commoventi. Ma tra i più difficili da decifrare.
Stasera, alle 8, sarà sul palco del Town Hall, a Manhattan. Per il suo debutto a New York City.