Dopo oltre un quarto di secolo di giornalismo, mi ha spaventato sentire il cuore pulsare quasi da togliere il respiro. Rispondo alla chiamata per l’appuntamento con Francesco De Gregori: “Hello? Yes, this is Francesco De Gregori… Ah, si parliamo in italiano con New York, bello”.
Emozionato balbetto che l’ho visto la prima volta a Palermo, allo stadio della Favorita quando avevo quindici anni e lui cantava con Dalla per il tour Banana Republic: “Ricordo bene il concerto. Lo stadio era strapieno, mai visto uno così”. Adesso Francesco fa i conti: “Stefano mi sembravi più giovane dal tono della voce”. Non do mai del tu nelle interviste, eppure continuo a chiamarlo Francesco senza riuscire a trattenermi. “Dai iniziamo perché non ho molto tempo” e lo dice con tono dispiaciuto, non da star. “Quanto tempo ci dai Francesco?” “Ho solo dieci minuti pieni, poi ho subito dopo un’altra intervista…” Durerà alla fine il doppio e quei quasi venti minuti di conversazione al telefono con Francesco De Gregori sono molto più intensi di qualsiasi ora passata ad ascoltare premier e ministri e pezzi da novanta incontrati in un quarto di secolo a New York.
Il perché di quel tu mentre quasi non respiro dall’emozione lo capirò alla fine. Quando l’intervista si conclude e lo ringrazio per aver deciso di venire a New York, dove si esibirà al The Town Hall il 7 novembre , lui ricambia con parole gentili per La Voce. In quell’attimo capisco tutto: in Francesco De Gregori, nella sua arte messa in musica, sento e vedo la storia in un ragazzo, in un calcio di rigore sbagliato, nel primo bacio, in quel primo corteo con i compagni di liceo, risento imponente e lancinante, dopo aver rivisto saltare in aria il giudice Chinnici anni prima di Falcone e Borsellino, il desiderio di giustizia e libertà. Già, tutta la sconvolgente emozione di sentire che la storia sono anche io, siculo-italiano-italoamericano a New York, che intervistando Francesco De Gregori nell’ottobre del 2017 capisco quanto la storia siamo ancora tutti noi, coloro che come lui amano Dylan, Shakespeare, e quei sentimenti d’amore e di giustizia trasmessi dall’arte che viaggia nelle sue canzoni.
Il tour in Europa è già iniziato e De Gregori si esibisce in palcoscenico, per la prima volta, senza barba e senza cappello.
Come mai tutto questo tempo prima di arrivare a New York?
“Si vede che i newyorkesi non mi hanno mai chiamato prima (sorride, ndr). È colpa loro, ci sarei venuto anche prima. No, adesso con questo tono scherzo. Mi andava di fare una piccola tournée nei club, in Europa, uscire un po’ dall’Italia dove ho suonato moltissimo negli ultimi anni. Troppo forse. E quindi volevo staccare un po’ la spina con il pubblico italiano e abbiamo organizzato questo tour europeo. Adesso sono a Parigi, poi sono stato a Monaco, a Zurigo, andremo a Londra. La mia agenzia mi ha proposto, e io sono stato ben felice, di andare a Boston e New York, di andare oltreoceano. Per me, chiaramente, un’esperienza nuova. Se qualcuno me l’avesse chiesto dieci anni fa ci sarei venuto, ecco (ride, ndr).”
Dylan. Chi ti ama e ti conosce, legge le biografie, sa che tu sei stato ispirato da Bob Dylan. Dylan, quando diventa in italiano, diventa più sentimentale, più personale o è lo stesso Dylan americano?
“Io spero di essere riuscito a salvare il suono di Dylan, che era il primo problema che mi sono posto, prima ancora delle lyrics. Perché è importante tradurre il suono di Dylan e quella è stata la cosa più difficile. E per quanto riguarda i testi, la drammaticità, la sentimentalità dei testi di Dylan, io credo che Dylan, già in origine scriveva dei testi sentimentali. Nonostante la sua apparenza burbera e a volte anche acida, sul palco, se uno analizza i testi delle canzoni trova molto sentimento, dentro. E quindi, io, non ho fatto altro che cercare di salvaguardare questa sentimentalità, che in italiano suona un po’ male. La parola ‘sentimentalismo’, capisci, può sembrare una cosa zuccherosa, ma non è questo. Dylan ha sempre scritto di sentimenti, sentimenti forti, è quello che fanno i grandi scrittori: Dylan lo fa come lo fa Philippe Roth nei romanzi, come l’ha fatto Shakespeare nei suoi sonetti o nelle sue tragedie. E quindi, questa sentimentalità non l’ho dovuta artificiosamente introdurre nella lingua italiana, ho cercato di rispettare quello che già c’era nelle canzoni di Dylan. E oltre che sentimentalità io la definirei anche spiritualità”.

Quindi, il Nobel a Dylan è meritato, secondo te? Anche se non se lo è andato a prendere.
“Allora, il Nobel a Dylan è meritatissimo, purché si faccia chiarezza su una cosa, che è stata spesso equivocata, per lo meno qui in Italia. Molti hanno voluto credere, o hanno creduto, che il Nobel gli fosse stato dato per i testi, quindi considerando i suoi testi come poesie autonome rispetto a una sua opera musicale. Se fosse così sarebbe un errore. In realtà, il Nobel gli è stato dato per la sua opera complessiva, che è fatta di musica, di parole e, credo, anche di performance. Quindi è l’artista completo che viene premiato con il Nobel per la letteratura. E questo mi sta benissimo, perché è come se oggi si desse il Nobel per la letteratura a Shakespeare, torniamo a lui. Anche Shakespeare scriveva non per delle cose che andassero lette, a parte i sonetti. Scriveva per delle cose che andavano rappresentate. Dylan fa esattamente la stessa cosa e appartiene, quindi, alla letteratura esattamente come appartiene Shakespeare alla letteratura. Questo è il mio modo di intendere. E credo che l’Accademia di Stoccolma abbia visto giusto, ha dato il premio alle canzoni di Dylan, non ai testi delle canzoni di Dylan, contrabbandandole come poesie, perché i testi delle canzoni di Dylan non sono poesie”.
In questa settimana si celebra la lingua italiana nel mondo. Quest’anno, la Farnesina, la celebra attraverso il cinema. Ma la musica italiana, pensiamo anche all’opera, è famosa in tutto il mondo. Se ho capito bene, tu porterai qui a New York, Dylan in italiano. Non hai paura di cantare Dylan in italiano?
“Non ho paura di cantare Dylan in italiano all’estero. L’ho già fatto a Zurigo, a Monaco e a Bruxelles ieri sera (mercoledì, ndr), davanti a un pubblico che era anche in larga parte italiano, in realtà. Però non ho paura di farlo in America, perché io sono andato a sentire vari concerti di Dylan. L’ultimo l’ho sentito a Parigi e Dylan ha cantato “Les feuilles mortes”, di Yves Montand, un pezzo francese famoso, che appartiene alla tradizione degli chansonnier francesi, nella versione americana, tradotta non so da chi, forse da lui, questo non saprei. Però ha cantato, a Parigi, in inglese, un pezzo tradizionale francese. Perché la musica comanda, la musica vince. Dylan ha fatto bene a non porsi nessun problema e io non intendo pormi nessun problema: vorrà dire che la gente, gli americani che saranno lì, capiranno che è l’omaggio di un italiano che usa la sua bella lingua, perché stiamo parlando di una bella lingua, l’italiano è una bella lingua, per tradurre un grande musicista americano. Non dovrebbe essere un’operazione sbagliata, poi vedremo insomma (sorride, ndr)”
E hai tradotto tu o ti sei fatto aiutare?
“No ho tradotto tutto io. Ho fatto un disco con undici traduzioni in italiano, di undici canzoni di Dylan e le ho tradotte io. Ed è stato un lavoro, da una parte, molto molto eccitante e, dall’altra, molto responsabilizzante e difficile. Siccome io non parlo, non sono fluent in inglese, mi sono basato poi su alcune traduzioni letterarie fatte da Alessandro Carrera, che è un filosofo italiano che insegna a Houston, che fece un libro di traduzioni letterali di Dylan e per certe cose io mi sono basato anche su quello, per capire. Dopodiché io ho fatto la traduzione che potesse andar bene per essere cantata”
Tu sei riuscito a rimanere “De Gregori” attraverso diverse generazioni di italiani. Come spieghi questo? Credi sia una cosa tipica dei cantautori, quindi non soltanto tua, ma dei cantautori italiani che riescono con i loro successi a toccare diverse generazioni?
“Io penso che sia questo. Perché negli anni ’70 e nei primi anni ’80, c’è stata una formidabile ondata di cantautori, in Italia. I nomi non te li sto a fare, ma insomma si va da Lucio Dalla, a Bennato, a Venditti, a Baglioni, diversi, diversissimi nello stile, Pino Daniele. C’è stata una grande fioritura di talenti e abbiamo scritto, tutti quanti, ognuno da una parte e dall’altra, delle cose che poi non sono mai state obliterate nel tempo. Oggi, chiaramente, è un’altra la musica che sentono in molti. È cambiato tutto: oggi il rap, che non esisteva, forse è il genere dominante nel mondo, tutto questo però si è aggiunto al lavoro fatto dalla canzone d’autore italiana di quegli anni, non lo ha sostituito, non è stato annullato il lavoro che abbiamo fatto noi, esiste ancora. Tant’è che poi lo verifico io, personalmente, quando faccio i concerti. Che la gente viene e viene gente giovane. Chiaramente vengono anche quelli che hanno la mia età, la tua età o gente di 40-45 anni. Ma vengono anche ragazzi che hanno 20 anni, che non erano nati quando io ho cominciato a lavorare e a scrivere”.

Quale delle tue canzoni, scritte anche tanti anni fa, rappresenta al meglio, secondo te, il presente e l’attualità?
“Questa è una domanda molto difficile. Non so se ce ne sia una o se ce ne siano più di una. Non so, alcune canzoni ‘d’amore’ che ho scritto, vanno bene anche oggi, perché quando parliamo di un sentimento, di una passione, quella non è databile. Se tu scrivi ‘Rimmel’ o ‘Buonanotte fiorellino’ nel ’74-’75, parli di sentimenti o di situazioni che ognuno può vivere anche oggi o che viveva anche 500 anni fa, torniamo sempre a Shakespeare. Altre canzoni che sono più legate all’attualità, penso a canzoni come ‘Viva l’Italia’ o ‘La storia’, in certi punti possono sembrarmi datate, ma nemmeno tanto, perché le canzoni hanno comunque sempre un margine di sana e nobile ambiguità. Cioè nelle canzoni non ho mai parlato di cronaca politica. Ho parlato di concetti politici e sociali. Quindi credo che siano abbastanza attuali ancora adesso. E mi riferisco a ‘Viva l’Italia’, che è una canzone che sto facendo in queste serate e che quando la canto sento che ha ancora un significato attuale e non si riferisce soltanto al periodo in cui è stata scritta”.
Tu prima hai citato “La storia”, a mio giudizio un tuo capolavoro assoluto: “La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. Ecco, cosa pensi, oggi, dei nuovi potenti e del potere della Terra? Pensi ancora che la musica e le chitarre aiutino a ricordare che è la gente che fa la storia? È ancora così?
“Non lo so. Quando l’ho scritta evidentemente ero molto convinto di questo. Adesso non lo so. Ma non lo so perché tutto ciò che appartiene alla sfera della politica del mondo di oggi, delle tensioni politiche che gli esseri umani hanno tra di loro, quindi parliamo di guerre, di conflitti o parliamo di problemi legati all’immigrazione, parliamo di problemi legati a una presidenza degli Stati Uniti, o a una presidenza della Francia, o a una situazione italiana molto particolare e difficile. Io sono molto lontano da tutto questo: sono due o tre anni che non mi interrogo più su tutto questo, non mi appassiona. Vivo la vita da cittadino. Pago le tasse. Ecco mi sembra che il più nobile gesto che possa fare un uomo politico oggi, e io mi ritengo un uomo politico, sia quello di pagare le tasse. Una volta che le hai pagate, poi doversi anche interessare a cosa succede nel mondo mi sembra, alla mia età, a 66 anni, un lusso che non posso permettermi. Preferisco guardare fuori dalla finestra, o leggere un libro, o anche, semplicemente, pensare stupidamente a me stesso, o agli amici, o alle relazioni che ho”.

Francesco, l’ultima domanda, anche se ne avrei tantissime, perché voglio rispettare il tuo tempo. Per gli italiani in America, o gli americani di origine italiana, hai una canzone, in particolare, nel tuo grande repertorio, che pensi di dedicare a loro? A questi italiani che hanno attraversato l’Oceano?
“Sarebbe quasi inevitabile dirti ‘Viva l’Italia’, perché è una canzone che richiama un sentimento di fierezza e di orgoglio, di appartenenza a questo Paese che, forse, coloro che sono andati via, che vivono in America o in altri stati europei, questo sentimento di appartenenza lo sentono di più di quanto non lo sentiamo noi, che viviamo in Italia e che quindi vediamo forse i lati più faticosi del nostro Paese. Stare all’estero vuol dire rimpiangere, avere la ‘saudade’, come si dice. Quindi ‘Viva l’Italia’ potrebbe essere la prima risposta immediata, quasi banale, perché testimonia un affetto per un Paese che loro magari desiderano da lontano. Ma mi viene in mente anche ‘Titanic’, che è una canzone sul viaggio, purtroppo finito tragicamente, che voleva unire, in tempi brevissimi, l’Europa all’America. E questo mi sembra, come dire, simbolico di quello che è successo negli anni a venire e sta succedendo oggi, sempre più velocemente. Cioè i Continenti si avvicinano, le lingue si mischiano, le appartenenze si confondono, i figli o i nipoti di un tedesco o di un cinese, oggi sono americani. L’America è sempre stato questo grande globo di accoglienza, questo grande melting pot di cultura. E quindi, forse, anche ‘Titanic’, al di là dell’esito drammatico dell’episodio storico in sé, può essere una canzone considerata un ponte tra le culture. E poi è una canzone anche divertente da suonare, è più ritmica e meno solenne, ogni tanto fa anche un po’ ridere, per lo meno a me fanno ridere certi personaggi che c’ho messo dentro. E quindi, è una buona canzone da portare”.
Discussion about this post