Con uno straordinario ritorno all'antico, il Metropolitan Opera di New York è riuscito, nell’ultima parte della sua stagione lirica, a restituire totale credibilità a una delle più folli opere mai generate dall’accoppiata Verdi-Hugo; e contemporaneamente a se stesso, dopo una serie di sbandamenti determinati da ossessione futuristica e di risparmio impadronitasi per qualche tempo del general manager Peter Gelb.
Questa inaspettata epifania si è prodotta grazie a una rappresentazione dell’Ernani con una formula quale da trent’anni non si era vista sul palcoscenico del più grande dei teatri lirici del pianeta (almeno come dimensioni). Lo spartito dell’opera, inscenata nel 1844 da un Verdi trentenne a Venezia, con la complicità del librettista Francesco Maria Piave, per giustificare la più delirante delle storie romantiche sbocciata dalla mente di Victor Hugo, appunto, era interpretato dalla sensibile bacchetta di James Levine, che dopo la sua lunghissima malattia ha ripreso in piena forma la direzione musicale del teatro. Sulla scena c’era, nei panni di Carlo V, un Placido Domingo che – a settantaquattro anni e dopo il semplice rimedio al progresso dell’età costituito da una riduzione tonale da tenore a baritono – ha dominato, come sempre, l’intera impresa con una voce d’intensità, intonazione e colore prossimi all’inarrivabile. Levine e Domingo celebravano con questa produzione la loro trecentotrentesima collaborazione, una durata unica nell’in- tera storia del Met e probabilmente un record mondiale. La sventurata Elvira era impersonata dalla soprano americana Angela Meade, già ben nota al Regio di Torino per la sua voce vigorosa e forte, di un metallo – come si usava dire – impeccabile; che sembra anche un soggetto esemplare per la campagna di Michelle Obama contro la iper-alimentazione in America, particolare che, anche questo, fa parte della tradizione.
Ma quella che ha impresso la nota persuasiva a questo generale ritorno ai tempi più classici del teatro lirico è stata la meravigliosa scenografia di Pier Luigi Samaritani (l’allievo di Zeffirelli), stroncato cinquantunenne dal cancro nel 1993. Per la prima volta da molto tempo il Met è ritornato, proprio grazie al lascito di Samaritani, a capitalizzare il valore letterario e visivo di un’opera dentro cornici adeguatamente drammatiche e scrupolosamente armonizzate con il testo musicale. Basta confrontare questa produzione dell’Ernani con la versione ultramoderna e anche pretenziosamente simbolista e scheletrica in cui è stata introdotta, con esiti catastrofici, una Traviata nella prima parte della stagione, per capire quanto grande possa essere il recupero in termini di dignità teatrale. Un interesse estetico derivante, poi da un semplice rispetto delle intenzioni musicali e narrative degli autori originari trova, alla fine, anche un riscontro economico nelle possibilità di ritrasmissione alle sale teatrali e cinematografiche, possibile solo con un accompagnamento visivo comprensibile e eloquente.

“Tempest” in scena al The Metropolitan Museum of Art. Foto: Richard Termine
Quella del Met sembra una resipiscenza assolutamente tempestiva, anche in vista della concorrenza sempre più serrata che compagnie d’opera lirica newyorchesi più giovani, dotate di coraggio e spirito innovativo, stanno facendo al grande teatro lirico di Manhattan. Merita particolare citazione l’ultima produzione della Gotham Chamber Opera, una combinazione tra musica, balletto e performance art messa in scena dal coreografo Luca Veggetti (già della Scala) su idee della compositrice finlandese Kaija Saariaho e dell’artista multimediale francese Jean-Baptiste Carrière (da non confondere con l’omonimo compositore del Settecento…).
Costoro hanno messo insieme un Tempest Songbook, includente una musica incidentale per il dramma shakespeariano La Tempesta, attribuita a Henry Purcell e scritta nel 1695, alternandone l’ esecuzione mediante strumenti antichi, con frasi musicali pubblicate dalla Saariaho nel 2004, e accompagnando il tutto con straordinarie sorprese tecnologiche e con una danza eseguita da membri della celebre compagnia di Martha Graham. Dunque un lavoro d'avanguardia, se ve n'è uno, ma ispirato molto strettamente a tradizioni che il Met si crede a volte in grado di ignorare.