In un’intervista a La voce di New York il prof. Emilio Manzotti, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Ginevra, evidenziava la precipitazione verticale dell’italo-fonia nella Confederazione elvetica a vantaggio soprattutto dei germanofoni. L’italiano rischia di divenire una materia facoltativa in molti Cantoni e la televisione svizzera italiana ha più volte lanciato l’allarme su questo tema. Secondo il prof. Manzotti sono vari i fattori che determinano questa caduta inarrestabile, prima di tutto il dominio dell’inglese come lingua necessaria nel mondo globalizzato. A questo si aggiunge la percezione dell’italiano come lingua fuori moda anche nella stessa Italia, surclassata dall’utilizzo di termini inglesi percepiti come cool e sinonimi di modernità, internazionalità e innovazione. Qualche tempo fa la pubblicitaria Annamaria Testa lanciò la campagna di sensibilizzazione #dillointaliano (con annessa petizione su change.org). Perché utilizzare dei termini inglesi a tutti i costi?
Chi crede agli unicorni risponderebbe che l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Secondo alcuni studi sì, ma guardiamo ai numeri. Secondo duolinguo.com l’Italiano è letteralmente sparito come lingua studiata nel mondo, a vantaggio di lingue “nuove” come cinese e arabo e ovviamente l’onnipresente inglese. Negli Stati Uniti, con la completa integrazione delle generazioni postere di italo-americani, l’italiano è stato eliminato come lingua straniera in molte scuole superiori mentre in altre rimane come quarta, ultima e un po’ snobbata. Insomma, per la lingua di Dante non è più tempo di stare sugli allori né di perder tempo in Arno.
A paragone con altre lingue neolatine, l’italiano trova posto tra i più colti, in poche parole tra quelli che conoscono almeno altre due lingue. Ma quali sono i motivi, e quali le possibili soluzioni, di questo ridimensionamento linguistico?
Colonialismo linguistico.
Il termine è un pò duro, ma richiama direttamente una citazione di Winston Churchill, il quale sosteneva che se un popolo è costretto ad apprendere una lingua (in quel caso l’inglese per gli indiani), allora quel popolo diviene anche un po’ inglese. E’ ovvio che chi conosce una determinata lingua può facilmente fruirne la cultura, anche solo guardando la televisione. Come affrontare questo colonialismo linguistico? Una soluzione efficace può essere il protezionismo. Un altro brutto termine (per gli amanti del libero mercato) che però è applicato con successo da Paesi come la Francia. I francesi tendono a tradurre tutti i termini dalle lingue straniere (ad esempio computer-ordinateur) e non è un uso di costume, ma proprio un obbligo di legge (la loi Toubon del 1994 e la loi Marini nel 2004). Queste due leggi hanno come obbiettivo l’arricchimento della lingua e obbligano i media a utilizzare parole francesi invece di quelle straniere, specialmente per la pubblicità (vi ricordate il povero Totti pronunciare “Life is now!” ?). Una buona pratica che fino a poco tempo fa avveniva anche con l’italiano utilizzando calchi linguistici sia dal punto di vista semantico (una stella per indicare un attore/attrice famoso/a, una star) sia formale (grattacielo da skyscraper). I prestiti linguistici, ovvero parole straniere adottate sic et simpliciter nella lingua corrente, hanno preso il sopravvento da 10 anni a questa parte. C’e’ un motivo per cui il dizionario italiano non cresce, a differenza di quello francese o spagnolo.
Una lingua rigida.
In molti asseriscono che l’italiano sia una lingua che non permette una fantasia linguistica tale da creare nuove parole. L’inglese e il tedesco, e le lingue germaniche in generale, sono famose per essere creatrici di nuovo senso. Basta accostare due parole per crearne un’altra di nuova semantica. In realtà la lingua è il mezzo con cui una cultura trova espressione e quindi è legata ad essa. Se una lingua viene utilizzata, abusata, compressa, masticata, rivista e incrementata dalla società di cui è parte allora può progredire. Ne è una dimostrazione l’aggettivo “petaloso” creato ex novo da Matteo e dalla sua maestra della scuola elementare di Copparo (Ferrara) e riconosciuto dell’Accademia della Crusca. L’ipotesi è che la società italiana abbia smesso di creare nuove parole, limitandosi pigramente a copiarle da altre lingue. Octavio Paz diceva che quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. E una tesi che vale oggi in Italia?
I nuovi media.
Tutti i nuovi media si esprimono in inglese. La tecnologia, l’informatica, la comunicazione in generale avviene in inglese (tranne in Francia, dove anche il messaggio 404 error del browser viene tradotto). Eppure la lingua più utilizzata nei loghi e nei marchi, dopo l’inglese, è quella italiana, sia per associazioni intrinseche (tipo qualità) sia perché a livello fonetico più melodica. Sui media italiani stendiamo un velo pietoso. Gli articoli scritti (specialmente dai giovani giornalisti) sono pieni di ammiccamenti anglosassoni e parole inglesi d’effetto (ma sapranno metterle in fila per fare un discorso?). Gli amministratori delegati si chiamano CEO (con immancabile pronuncia all’inglese), le segretarie Project Manager e i centralinisti Customer Care. “Oggi scheduliamo un meeting per discutere della Brand Identity ma soprattutto dello spread e del quantitative easing. Ok, ma forwardami il file altrimenti bleffiamo gli stakeholders!”. Utilizziamo l’inglese come fattore nobilitante e come business card di internazionalità. I social sono pieni di frasi in inglese di utenti che si rivolgono a nessun amico internazionale in particolare. Ecco, così, fa figo. Mio fratello è un grande boy, kiss kiss good morning a tutti, ready for the gym, ready for the summer, stasera il party è stato cool, ovviamente. Il filosofo politico Diego Fusaro li definisce neofiti dell’internazionalità, ovvero gli esclusi che per sentirsi parte del mondo globalizzato utilizzano l’inglese spicciolo come passaporto linguistico. Questo neofismo (che è anche un neologismo) si scontra però con la realtà dei dati: i giovani italiani sono agli ultimi posti in Europa per la conoscenza dell’inglese. Come suggerisce Annamaria Testa nel suo TedTalk, non è meglio conoscere un buon italiano e un decente inglese invece di utilizzare male entrambi?
I buoni esempi.
Corrado Augias, su La Repubblica, ha presentato non molto tempo fa il libro di Annalisa Adreoni “Ama l’italiano, segreti e meraviglie della lingua più bella” (citazione da Goethe). L’autrice racconta le duttilità e sfumature della nostra lingua a volte sottovalutate. “Abbiamo 250mila parole, contro le 600mila dell’inglese, ma non siamo più poveri. Mentre l’inglese usa un aggettivo accanto al sostantivo per declinarne il significato, noi da una radice ricaviamo molti vocaboli. Per esempio da ‘casa’ derivano ‘casetta’, ‘casina’, ‘casino’, ‘casona’, ‘casaccia’, ‘casettina’. E ogni vocabolo ha un significato molto preciso, a volte anche due, come ‘casino’ ”. Ma quindi, se il problema non sta nella lingua in sé, come mai parliamo come nei film di Alberto Sordi? La risposta esatta può essere la più scontata: i buoni esempi. Le nostre élite si riempiono la bocca con parole estranee, forse per non essere compresi o per risultare dotti. In politica la situazione è tragicomica. Guardiamo a come l’ex governo e gli ex parlamentari giudicavano indispensabile la conoscenza della lingua inglese, ovviamente per i fini più ridicoli. Risibile, infatti, è il tentativo della parlamentare Adriana Calgano di apparire moderna quando risponde alla domanda de Le Iene sulla Siria con “Lei mi faccia delle domande un po’ più complicate. Please, ask me something in English!”. La parlamentare continua dicendo che la domanda riguarda la cultura generale, quindi (a suo dire) nozionistica, facilmente trovabile su internet, non recependo la differenza tra cultura materialista e funzionale, che e’ appunto quella di imparare l’inglese, e quella umanistico-scientifica che richiede una conoscenza fattiva di qualcosa. Ma vabbè, lasciamo stare. Come incomprensibile è stato l’uso dell’inglese da parte del governo Renzi e Gentiloni nelle varie leggi come il Job Act, la legge sui Whistleblowers (quanti genitori hanno avuto stiramenti della lingua per pronunciarlo?) e sulle Stepchild Adoption. Domanda: perché utilizzare l’inglese in una legge dello Stato che si riferisce ad un pubblico di italiani? Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è per cavalcare il giovanilismo di questo millennio. Ovvero, per sembrare più giovani ed essenzialmente accattivarsi il voto dei millennials bombardati dall’inclanzante inglese fin dal primo ruttino d’infanzia. Il secondo è più dietrologico, ma definitamente più intelligente e subdolo, cioè usare l’inglese per non far capire che tipo di legge si sta approvando ed evitare quindi le eventuali sacche di resistenza. Il Job Act è stata una legge che ha eliminato l’articolo 18; le adozioni e la legge sulla protezione di chi segnala abusi sono da sempre osteggiate da una certa politica trafficona. Dal punto di vista di buoni esempi non è che stiamo messi bene.
Italo Calvino, in un suo intervento sul Corriere della Sera nel ’78, scriveva che la nostra lingua ha vocaboli di una espressività impareggiabile. “La stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che ha e anzi”, diceva Calvino, “è un bene nazionale da usare con parsimonia, altrimenti si deteriora”.