Perché siamo così attratti dalla lingua e cultura italiana? In cosa consiste il fascino che trasmette agli stranieri?
Per capire la notevole influenza che l’Italia e l’italiano hanno su scala mondiale, abbiamo intervistato Annamaria Testa, un’italiana altrettanto affascinante.
Imprenditrice e docente universitaria, esperta di comunicazione e creatività, titolare dell’agenzia Progetti Nuovi, insegna presso l’Università Bocconi a Milano. Scrittrice prolifica di libri e articoli, nel suo campo accademico e professionale, sui quotidiani, su Internet, ed anche in versione cartacea. Chi scrive è rimasta incantata immediatamente quando l’aveva seguita negli Stati Generali a Firenze in ottobre 2016. Nel vederla così potente sul palco con i capi di grandi imprese multinazionali e il giornalista e scrittore Beppe Severgnini, io, docente d’italiano ad un’università statale nel New Jersey, son rimasta affascinata dagli scambi di questa tavola rotonda sul ruolo della lingua italiana nel pubblicizzare le eccellenze italiane, ed i consigli di Testa per preservare la lingua italiana tramite il mondo d’affari.
Annamaria Testa, relativamente sconosciuta negli USA, tuttavia al livello internazionale è stimatissima per il suo prestigio da guru della pubblicità ed anche come forza trainante di varie iniziative sociali: sull’attivismo linguistico, sui diritti delle donne, sulla protezione dei bambini e sulla creatività. Con questa intervista che Annamaria Testa ha rilasciato a La Voce di New York, siamo lieti di poter presentare al nostro pubblico americano i suoi contributi e il suo impegno per la lingua e cultura italiana.
L’italiano è una lingua amata, non c’è dubbio. Se si pensa all’affermazione di Thomas Mann “la lingua degli angeli” (che diventa poi il titolo del libro di Harro Stammerjohann publicato dalla Crusca nel 2013), l’italiano è la lingua della musica, del cibo e altri aspetti culturali. Qual è il fascino dell’italiano a livello mondiale? È veramente un lusso la lingua italiana?

“La prima cosa certa è che l’italiano è molto studiato nel mondo. La seconda cosa certa è che non è di sicuro studiato per fare affari.
Più che di ‘lusso’, a proposito dell’amore che per la nostra lingua hanno le persone di altri paesi, parlerei di seduzione. Il suono, prima di tutto: sembra che le nostre parole suonino più armoniose. E poi, certo: ci sono la musica e l’arte, il cibo, la moda, l’arredamento e il paesaggio. Tutto questo rimanda a un’idea – e anche a un sogno – di desiderabilità e di bellezza.
Ci sono altri motivi: per esempio, il fatto che l’italiano sia la lingua ufficiale della Chiesa cattolica. Per esempio il fatto che l’italiano sia la vera lingua franca dei critici d’arte e dei direttori dei musei, che non riescono a considerarsi tali se non hanno compiuto studi in Italia, e che discorrono in italiano in qualsiasi parte del mondo si ritrovino, a Hong Kong o a Vancouver. Questo aneddoto mi è stato raccontato da una esponente del nostro Ministero degli Esteri, e l’ho trovato incantevole.
È proprio il Ministero degli Esteri a sottolineare che la nostra lingua è un importante strumento di potere morbido. Il concetto di soft power è stato formulato dal politologo Joseph Nye, docente ad Harvard, alla fine degli anni 80. Riguarda la capacità di esercitare influenza per ottenere i risultati voluti, anche senza esprimere potenza economica o militare.
Ed eccoci tornati alla seduzione. C’è una classifica internazionale del soft power, e nel 2016 l’Italia è undicesima, e sta guadagnando posizioni. Anche grazie alla bella lingua, e all’attrazione che suscita”.
Esiste ancora questo fascino sul territorio nazionale? Cioè gli italiani amano la loro lingua?
“Alcuni italiani amano (e molto) la loro lingua. Ma non tutti. D’altra parte, una caratteristica deteriore del nostro comportamento nazionale consiste proprio nel sottovalutare sistematicamente quanto di bello e prezioso ci appartiene, spesso rinunciando a preservarlo e a valorizzarlo in maniera adeguata. Ma ho l’impressione che, anche se assai lentamente, la sensibilità diffusa si stia modificando, e che le persone comincino da una parte a prestare più attenzione al tema linguistico, dall’altra a manifestare più apertamente insofferenza nei confronti, per esempio, dell’itanglese: l’uso inutile ed esagerato di termini inglesi perfettamente sostituibili con corrispondenti termini italiani”.
Come si fa a spiegare dunque l’invasione degli anglicismi nella lingua italiana, persino da parte del governo? Lo slogan “inglese, internet, impresa” che come progetto educativo fu seppellito, persiste nel contesto socioculturale?
“La cosa curiosa è che gli italiani, che pure straparlano in itanglese, parlano molto poco le lingue straniere, inglese compreso. Cito solo alcuni dati Istat, tratti dal recente libro L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione: solo il 14,5 per cento degli italiani ha una conoscenza buona o ottima dell’inglese. Il 33,5 per cento ha una conoscenza appena sufficiente o scarsa. Il 50,4 per cento degli italiani non parla inglese per nulla. Il resto non risponde nemmeno.
Se teniamo conto di questi dati, capiamo bene che usare termini inglesi nei documenti ufficiali, o per nominare nuove leggi, è un fatto intrinsecamente antidemocratico, nella misura in cui impedisce a una larga parte dei cittadini di avere un’adeguata comprensione dei testi.
La cosa positiva, invece, è che l’uso dell’itanglese viene sempre meno visto come segno di modernità, internazionalità e cosmopolitismo, e sempre più come indizio di provincialismo, e di voglia di pavoneggiarsi e di gettare fumo negli occhi. E anche come segno di scarsa conoscenza del significato dei termini inglesi. Governo e ministeri sono stati aspramente criticati da molti per l’abuso dei termini inglesi”.
A proposito della campagna #dilloinitaliano. Siamo a due anni dal lancio della petizione, la quale aveva raggiunto velocemente il suo traguardo. Sono partite le iniziative? I risultati finora quali sono?
“Qualche risultato c’è stato: le firme sono state consegnate al Presidente Mattarella. L’Accademia della Crusca ha dato vita al Gruppo Incipit, il cui obiettivo è tenere sotto controllo i forestierismi di nuovo arrivo impiegati nell’ambito della vita civile e sociale, e individuare e proporre valide alternative italiane. Sono onorata di essere stata chiamata a farne parte.
La Corte Costituzionale ha di recente deliberato che le università non possono offrire corsi di laurea specialistica esclusivamente in inglese. Questo è un risultato importante, perché l’italiano è parte dell’identità sia individuale sia professionale: studiando la propria disciplina solo in inglese, i ragazzi si sarebbero trovati a perdere l’intero bagaglio dei termini specialistici italiani, e questo sarebbe stato un grosso danno, oltre che una fonte di infiniti possibili equivoci.
E ancora: sono usciti o stanno uscendo diversi libri che riprendono, ampliano e consolidano i temi e lo spirito della petizione.
Rispetto al nulla che c’era prima, è già qualcosa. Ovviamente non basta.
C’è, in fase avanzata di studio, un nuovo progetto che potrebbe aiutare a cambiare le cose, e che vede protagonista il gruppo Incipit. Mi auguro che si troveranno i fondi necessari a vararlo: dopotutto, basterebbe una cifra piuttosto contenuta”.
Ad ottobre agli Stati Generali, durante la tavola rotonda a cui ha partecipato con Andrea Illy (illycaffè), Olivier François (Fiat Chrysler), Clément Vachon (San Pellegrino) e Leo Gavazza (Bulgari), moderata da Beppe Severgnini, si cercava di sfidare le imprese proponendo di stabilire un manuale d’uso della lingua italiana nelle pubblicità. Sta prendendo piede questa proposta? Come si fa a cambiare le strategie delle imprese del marchio “Made in Italy”?

“Questo per me è un punto particolarmente dolente (vedete il suo intervento TEDx alla fine dell’articolo – ndr.). Per esempio, proprio stamattina nella metropolitana di Milano ho visto una grossa affissione per un gelato da asporto, il cui titolo dice: Nuova Magnom pot, made to be broken. Magnum, for pleasure seekers.
Attenzione: è un gelato da consumarsi a casa, e quindi palesemente rivolto non al pubblico dei turisti, ma a quello dei residenti milanesi. Escludendo il marchio “Magnum”, sulle 9 restanti parole ce n’è solo una (“nuova”) in italiano. E, se si tengono presenti i dati sulla conoscenza dell’inglese ricordati poco sopra, viene davvero da domandarsi il perché di questa scelta.
Tra l’altro: promuovere il buon italiano per i nomi dei prodotti del Made in Italy e per la loro comunicazione sarebbe anche un modo per contrastare il fenomeno dell’italian sounding: prodotti fintamente italiani, con nomi e confezioni fintamente italiane, venduti in tutto il mondo. È un mercato che, solo per il settore alimentare, vale 60 miliardi.
Ma val la pena di ricordare anche una nota positiva. Di recente Altagamma, l’associazione che raccoglie le imprese eccellenti italiane e le aiuta a fare rete, a crescere e a promuoversi nel mondo, ha deciso di affiancare al proprio nome una definizione in italiano, ed è un bel successo: Altagamma, cultura e creatività italiana”.
Ora ribaltiamo la situazione. Qualche mese fa avevo indagato gli italianismi presenti nelle attività (non compreso il settore cibo) a New York e ho presentato una guida semiseria alla lingua italiana, scoprendo che per chi vuole fare affari in zona sarebbe utile sapere l’italiano. Secondo lei, l’uso della lingua italiana a New York, in particolare da parte di chi non è italiano, cosa significa per la lingua italiana? Si nutre grande speranza che la lingua così amata all’estero possa essere salvata, e può darsi saranno gli stranieri a farlo?
“Già sarebbe interessante ricordare agli italiani provinciali ed esterofili che “a New York risuonano parole italiane”. In ogni caso, l’interesse degli stranieri per la nostra lingua è d’aiuto per mille motivi. Perché siamo molto attenti a quel che di noi si pensa all’estero. Perché siamo pronti a far nostre le mode, e se parlare in buon italiano diventasse di moda, ci adegueremmo”.
Un’ultima provocazione… insomma, pensare in italiano rende forse più creativi?
“Posso dirle che ogni lingua dà una forma speciale al pensiero. Sono le parole con cui nominiamo le cose, e le strutture linguistiche in cui inseriamo le parole, a guidare la cognizione, l’intuizione, l’associazione delle idee e l’invenzione.
Questo, da una parte, significa che poter pensare in più lingue (ma conoscendo bene ciascuna lingua!) può moltiplicare le prospettive creative. E che pensare in italiano può orientare e determinare anche lo specifico modo italiano di progettare e di inventare”.