Quando mi è stato chiesto di scrivere su Elena Ferrante e di un possibile uso di alcuni brani tratti dai sui libri per insegnare la lingua e la cultura Italiana all’interno delle classi universitarie americane, ho subito avvertito una sensazione di fastidio, quasi di rigetto. La cosa dovrebbe sorprendere il mio advisor e i miei colleghi in quanto la mia tesi di PhD è stata l’analisi del testo La Frantumaglia, raccolta di pensieri, idee e parole che hanno fatto da laboratorio ai lavori futuri della Ferrante.
E allora perché il fastidio? Ho cercato di dargli un senso, un significato mistico quasi dopo aver ascoltato la presentazione del libro “The Works of Elena Ferrante. Reconfiguring the Margins”, una raccolta di articoli accademici curati dalla Professoressa Grace Russo Bullaro e Stephanie V. Love. La presentazione, tenutasi presso la Casa Italiana Zerilli Marimò NYU il 13 Aprile, è stata lo spunto di una vivace conversazione in cui gli interventi hanno sostanzialmente elencato solo elementi positivi da riscontare nei lavori della Ferrante.
Durante la presentazione, ho stilato una classifica di pro e di contro, cercando di dare una giustificazione quasi al perché non ho mai usato Elena Ferrante nelle mie classi pur avendo letto quasi tutti i suoi libri.
Mi sono ritrovata con un lungo elenco di ragioni che esplicano e giustificano il grande successo dei primi lavori dell’autrice e dei suoi successivi 4 volumi della “Opera Magna” L’Amica Geniale.
Nella colonna di sinistra, ho cominciato con indicare ciò che è sostanzialmente riconosciuto a livello internazionale: i lavori della Ferrante hanno registrato un immenso successo commerciale negli Stati Uniti, in Inghilterra e , in modo più “composto” in Italia, dove il successo di vendite non sempre si è accompagnato a quello della critica con contrastanti reazioni da parte del pubblico.
I suoi libri rappresentano un esempio di letteratura femminile in cui la narratrice ne esce violenta, potente quasi efferata in alcune descrizioni della psicologia umana. Una qualità letteraria, uno stile molto personale , misurato a tratti, ma esplosivo in altri, una sofisticazione nella scelta di strumenti che creano storie movimentate, personalità intense e toccanti, che lasciano un’ impronta nell’intimo del lettore.
La mia lista di pro si è allungata nell’ammettere il genio letterario della Ferrante di seguire l’amicizia di due donne (Lila e Elena) nell’ultima “saga” dell’Amica Geniale. La vita delle due donne/amiche/nemesi l’una dell’altra, viene narrata dall’infanzia all’età adulta e costretta in quattro volumi, una saga tutta al femminile con la vibrante Napoli come sottofondo. Subito dopo questo punto, ho ripensato ai primi tre romanzi dell’autrice (L’amore Molesto, I Giorni dell’Abbandono e La Figlia Oscura) e anche in quel caso, mi sono chiesta se non bisogni guardare a questi testi non nella loro individualità ma , piuttosto, come capitoli di una saga, (di nuovo tutta al femminile) in cui la protagonista femminile è il prototipo di donna che con nomi diversi (Delia-Olga-Leda) e in diversi ambienti geografici (Roma-Torino e una non identificata città del Sud- forse Napoli) cerca di creare una relazione con se stessa, con quell’io che si manifesta pieno solo se in connessione con un altro io, l’altro io della madre, figlia, marito o persino di una bambola! Il prototipo di donna che ne esce è di una identità che non appare persa o sfatta ma piuttosto inesistente perché, come ci rendiamo conto dopo la lettura dei romanzi, si tratta di una maschera Pirandelliana che l’autrice ha posto sul volto delle protagoniste per nascondere un vuoto dell’esistenza. I romanzi, allora, presi nella loro totalità, possono essere visti come un continuo coprire quel vuoto esistenziale che appare come le toppe di un vestito che prende forma, quasi la Ferrante fosse una sarta della narrazione che, pezzo dopo pezzo, manica dopo manica, confeziona sui protagonisti quell’abito esistenziale che più Le (all’autrice) appare idoneo. Ed ecco che, la mia penna dalla colonna di sinistra, si è spostata sulla destra, sulla colonna dei contro, dei motivi che mi “respingono”, contro i quali mi dibatto e lotto e che non mi fanno avvicinare al racconto della Ferrante.
Quando guardo al complicato e struggente rapporto della donna (in qualsiasi forma e aspetto – madre, moglie, sorella, amica) con la sua identità e in rapporto con la comunità che la circonda, non riesco a riscontrare nessuna efficace e creativa invenzione, nessun particolare e ignoto aspetto che non sia stato già narrato per secoli e in tutte le sue forme da altre grandi narratrici femminili (dalla Simone de Beauvoir a Annie Ernaux, alle nostre, Alba de Céspedes, Elsa Morante, Matilde Serao, Dacia Maraini, Anna Maria Ortese, Oriana Fallaci). Queste autrici, come la Ferrante, e forse meglio di lei, hanno saputo catturare la percezione della realtà femminile e al femminile e ricomporre, ricucire con la narrazione quell’io femminile frantumato e consumato, e di riportarlo allo status di pura essenza. Dunque, nulla di nuovo nel “molesto” quadro ricomposto dalla Ferrante.
Dopo aver terminato questo punto, mi sono avventurata in un altro dei temi cari alla Ferrante che appare e scompare nelle sue pagine. Un tema che forse mi sarebbe potuto apparire più accattivante: il tema dello spazio, della città, di quella Napoli che il cantautore Eduardo de Crescenzo descrive come “ammaliata, avvelenata, colorata, ammanettata, curiosa, ma sempre la mia città” . Una cittá che diventa un labirinto nelle vie della narrazione della Ferrante, una fonte o forse la fonte di tutti i mali delle protagoniste: la cittá vista come una costante componente di paura e di pericolo per il corpo e per la memoria e che continua a seguire le protagoniste femminili. Ma, ecco il mio ma: la Napoli della Ferrante non afferra l’anima del lettore, non ammalia per la vivacità dei colori della gente, dei servi, delle matrone, dei piccoli e grandi criminali, per l’emozione delle parole sguaiate e violente, per quel mal de vivre che è insito all’essere di Napoli e che rimbomba nei racconti di Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, Salvatore di Giacomo, Matilde Serao o Roberto Saviano. Non ritrovo nelle parole della Ferrante, quella indolenza, insoddisfazione e precaria sopravvivenza che sono pene e dolori ma anche fascino della vera Napoletaneità: quel cadere, soccombere ma sempre riuscire e risalire la china che è insito nel DNA dei Napoletani.
La mia lista di destra dunque si allunga sempre di più fino a costringermi a una domanda finale: sono convinta che non voglio inserire la Ferrante nelle mie classi? Per il momento va bene così.
Sotto il video dell’intera presentazione del libro “The Works of Elena Ferrante. Reconfiguring the Margins”, alla NYU Casa Italiana Zerilli Marimò.
Elda Buonanno Foley, fiera meridionale di Capua, vive a New York da 16 anni, dove ha completato gli studi in letteratura comparata. Professore associato in Lingua e Cultura Italiana a IONA College, insegna corsi undergraduate e graduate sul Cinema, Made in Italy, Moda e Design. Si occupa di metodologie didattiche e dell’integrazione della tecnologia in classe