Per noi generazione tra lo spirare del fascismo e i bagliori dell’ultima guerra, la neonata Repubblica ci accolse con l’aurora di sublimi speranze, tra salvezze giurate come realizzate e purtroppo con un sistema politico che restò costruito sul congenito «bisogna cambiare tutto affinché nulla cambi». Su quel piazzale di Loreto fece mostra oscena quel corpo capovolto, mentre la struttura statale, burocrazia e dirigenza con il pretesto della pacificazione rimase al suo posto (Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari del 22 giugno 1946, proposto dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, evitando così l’epurazione di dirigenti e magistrati). L’inconfessabile e imperdonabile peccato originale di questa repubblica dilaniata da oscuri assassini e terrorismi di marca ignota.
E giovani ci accolse ancora la scuola giolittiana classista, quella che distingueva tra il classico della classe dirigente, lo scientifico e magistrale, innumerevoli sezioni dei tecnici, che dal nome si qualificavano per se stessi. Perciò noi del classico abbiamo avuto come guida poetica per una quindicina di canti all’anno Dante con le sue tre cantiche, affrontato con parafrasi, vere e proprie traduzioni di una lingua ignota non solo ai siciliani, ma anche ai Lombardi. Per altro in genere odiati, ma comunque sempre imposti e sentiti con il peso di essere scolastici, cioè soggetti all’interrogatorio. Così l’impareggiabile narrativa di Boccaccio, la poesia di Ariosto e in terzo anno a chiusura l’opera di Verga, diciamo più precisamente I Malavoglia. Questo era stato il nostro impatto con la narrativa laica, avendo affrontato divisi nei due anni del Ginnasio I promessi sposi come opera di formazione culturale, ma soprattutto come educazione interiore.

Questa premessa era necessaria dopo il trionfalismo e l’elefantismo delle Celebrazioni dantesche, universali e immense per estensione cronologica e globalismo spaziale. Ancora oggi Dante è rappresentato come il padre della lingua e della cultura italiana a cominciare di tale collocazione dalla unificazione sabauda attraverso fascismo ed era democristiana.
Perciò, a parte i bislacchi precorrimenti dei ricconi del moderno capitalismo, gli Elon Musk dello spazio, i Bill Gates e Zuckerberg e i Bezos, evocati ad esempio di mastro don Gesualdo o della roba da Francesco Merlo (Robinson, 22.1.22), non per puro campanilismo, avrei voluto che maggiore risonanza assumesse la Celebrazione del primo Centenario della morte di Giovanni Carmelo Verga, nobile dei baroni di Fontanabianca, titolo che mai ostentò in anni in cui contavano i fregi nobiliari, nato a Catania il 2 settembre 1840 e qui tornato per morire il 27 gennaio 1922. In genere il Verga ostentato come classico scolastico e noto ai molti che tali studi compirono è quello del ciclo dei “Vinti”, e specificamente da I Malavoglia (Milano, Treves 1881) di padron ‘Ntoni e della sua sventurata “Provvidenza” ironico appellativo dati i risultati, ma anche dal Mastro-don Gesualdo (Milano, Treves, 1889), poco letti i capitoli dell’incompiuto La duchessa di Leyra. Eppure Verga è questo e molto altro ancora.
Cominciamo dal genere letterario più noto, il romanzo. Guida il monumento unico di Manzoni uscito in diverse edizioni (1825 e 1827, 1840 e definitiva 1842), la scelta di campo di Verga era avvenuta ad appena sedici anni sulla scia patriottica e del romanzo storico con Amore e Patria ed era proseguita tra il 1861 e il 1863 con I carbonari della montagna, in 4 volumi, e Sulle lagune. Il passaggio a Milano aveva operato una netta conversione alla corrente degli Scapigliati che furoreggiava nel salotto Maffei e in questa linea erano usciti e gli avevano dato celebrità negli ambienti letterari milanesi i romanzi, Una peccatrice del 1866, Eva del 1873, Eros e Tigre reale del 1875, infine già in fase di transito e di scelta estetica al verismo, Il marito di Elena del 1882.
Erano venuti poi i grandi del ciclo dei “Vinti”, ma fuori linea e precorritrice di altri tempi era uscito ancora con l’editrice Treves Dal tuo al mio, dramma nel 1903 e romanzo nel 1906, pessimistica lettura di un esito positivo dei conflitti sociali. Sarebbe troppo complesso e non lo permette l’economia dello spazio citare tutta la sua immensa produzione novellistica, dalla Nedda, a Rosso Malpelo a La lupa, a La roba. Ricordiamo le sintesi di Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883), uno scenario che coinvolge tutta la società del suo tempo, non solo quella siciliana.
In effetti il Verga è stato messo al centro di tante letture e rivisitazioni, sia come trasposizione teatrale, sia nelle svariate versioni cinematografiche che rimarcavano l’ambientazione verista. Prima fra tutte quella Cavalleria rusticana (Victorin Jasset, Ugo Falena, Ubaldo del Colle, Liliana Cavani), ma anche la Storia di una capinera sulla linea larmoyant alla Caterina Percoto. Perciò mi voglio soffermare sul suo rapporto speciale con il cinema. È noto che tra il 1912 e il 1914 affidò a De Roberto alcune sceneggiature cinematografiche, nonostante la sua idiosincrasia per il genere, prima fra tutte la sua Capinera che in chiave verista e patetica riprendeva la storia manzoniana della monaca di Monza e dell’amore dopo la monacazione forzata. Da lì a poco Luigi Pirandello avrebbe affrontato la questione della nuova Musa del Novecento nel romanzo Si gira… (sempre da Treves editore, 1916), evoluto in Quaderni di Serafino Gubbio operatore del 1925, in cui il cinema assume la forma del thriller con la vera uccisione sul set, mentre il cineoperatore confessa, “Finii d’esser Gubbio e diventai una mano”.

In una scoperta postuma di Verga mi ha stupito e affascinato come completamento e sussidio alla lettura sociale, avveniristica e strabiliante per i tempi, il suo amore per la fotografia. Nata nel 1839, approdò in Italia proprio con la “triade” di Catania, Luigi Capuana dal 1863, Verga dal 1878, che coinvolsero anche Federico De Roberto. Verga condannò in Capuana questa passione fanatica come “perdita di tempo”, anche se dovette ammettere che non era sfuggito al contagio fotografico: «vi confesso che questa della camera nera è una mia segreta mania».
Rimasta completamente ignota, intorno al 1970 furono scoperte in una cassetta della sua casa lastre fotografiche in mezzo a foglietti con indicazioni del soggetto, ora nel Fondo Verga 740 foto dal 1887 al 1902: la sua città, i contadini, i campieri, gli amici del Sud e del Nord, le donne di casa, i bambini e le ragazzine, i servi e i padroni, autoritratti e foto della famiglia, sfocature comprese, i personaggi dei suoi libri, foto che portava sempre con sé a Milano, a Firenze e a Roma (Wladimiro Settimelli, Le fotostorie. Il “verismo”: Verga e la fotografia, 18 febbraio 2007). È il documento più sconvolgente di quegli anni, il vero mondo dei “vinti” più tragico e dolente che mai sia stato impresso su una lastra, in emulazione con le foto di Zola e di Strindberg ed in sintonia con il teorema dell’impersonalità dell’arte secondo i canoni del verismo di Capuana. In anticipo del “Viaggio, racconto e memoria” siciliani di Ferdinando Scianna, dei documenti memoriali di Letizia Battaglia, di Enzo Sellerio e Nicola Scafidi. Si trattava di quella rêverie che fra l’aristocrazia milanese e l’imitazione dei bohémiens, tisici abitanti di soffitte, quella Sicilia che gli sarà soggetto amato e rimpianto della sua migliore produzione, la nostalgia che diventa opera d’arte.
Sarebbe anche l’ora di rilevare la perenne opera di evoluzione politico-sociale di Verga, la vasta produzione di carattere sociale, narrativa e drammatica (per tutti Dal tuo al mio, Milano, Treves, 1906), anche se alla fine aderì alla linea interventista ed ebbe qualche simpatia per il primo fascismo. Proprio il dicembre scorso sono state pubblicate da Massimo Bonura dei supposti probabili articoli giornalistici, Verga e i mass media: il giornalismo politico-teatrale e il cinema, (Palermo University Press, 2021), circa cinque, con un sorprendente stile ironico e spiritoso, in cui si rivelava la posizione critica nei riguardi del governo e della destra storica di Marco Minghetti, la sua posizione filo-unitaria (“Smettete ogni viltà – si legge nell’editoriale attribuito a Verga – e ridate all’Italia Roma e Venezia! Ascoltate un consiglio: ritiratevi!”) ed anticlericale, ma esprimeva anche notazioni estetiche nella scelta della narrativa rispetto alle arti “minori”. In breve possiamo dire che senza il processo culturale di Verga, non esisterebbe oggi una narrativa italiana, anche con le grandi opere di Massimo d’Azeglio (Ettore Fieramosca, 1833), ma anche quelle del teorico del verismo Luigi Capuana da Giacinta (1879) a Profumo (1892) al celebre incompiuto Il marchese di Roccaverdina (1900).
La strada della grande letteratura siciliana di Leonardo Sciascia, di diffusione mondiale, proprio a cominciare dal quella di Camilleri non avrebbero avuto luce. Senza dimenticare la lettura sociale del don Fabrizio di Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi, con tutti i proseliti ed imitatori di nuovi linguaggi dialettali dal sud al nord e di stretto vernacolo, riversatisi anima e corpo alla caricatura poliziesca senza alternativa. Il siciliano di I Malavoglia aveva un suo fascino e una sua caratura letteraria unica ed inimitabile. Mi perdoni Sciascia, che pur ha saputo cogliere il ritmo unico ed eccezionale della parlata siciliana in tutte i suoi generi letterari nessuno escluso con quel soggetto al termine della proposizione (alla tedesca?), mi scusi, ma il suo ché (accentato) per il letterario “perché”, non ha nulla a che vedere con il “che” verghiano che traduceva il “ca” siciliano.