Ferdinando Scianna, le è mai capitato di fare delle brutte fotografie?
“E come no! Ogni cento mie foto, trovo che, per me, almeno novanta facciano schifo”.
Proprio schifo? Sorride sornione. Eccolo qui, con il suo spirito tagliente, uno dei più grandi fotografi italiani, se non del mondo: 78 anni, siciliano di Bagheria, segno zodiacale Cancro, una vita passata a correre di qua e di là con la macchina fotografica al collo e a firmare reportage passati alla storia e pubblicati da grandi giornali di una volta, come in Italia fu L’Europeo: un settimanale che riuscì, negli anni Settanta e Ottanta, a radunare i maggiori talenti del settore.

Incontro Scianna nel suo grande studio a Milano, quartiere Chinatown, in mezzo alle fotografie in bianco e nero che sta scegliendo per le sue prossime mostre, da organizzare a settembre. Foto che riconosco come famose, scattate tanti anni fa, stampate in grande formato, tanto che qualcuna supera anche il mezzo metro in larghezza. Non ci sono però scatti recenti, e gli chiedo dunque come mai.
“Perchè la vecchiaia incombe, cara mia. Fare reportage impone fatiche che il mio fisico fatica a sopportare. Diciamo che, per questa ragione, sono passato con piacere dall’immagine alla parola scritta. Scrivo, scrivo molto, scrivo libri. La scrittura, se posso dirlo, ora mi ha salvato la vita. Faccio riflessioni anche sul mio mestiere. Alla mia età le farei comunque lo stesso anche se avessi fatto un altro mestiere”.

Per lei la fotografia è sempre racconto e memoria?
“E se no cosa altro sarebbe? La fotografia è un racconto perché parte dalla realtà, e siccome la fotografia ha provocato un’illusione, quella di fermare il tempo, la foto è la trasformazione di un presente in memoria. Le foto mostrano. Non dimostrano”.

Lei ha un predilezione per il ritratto. Perché?
“Perchè il ritratto è la quintessenza della fotografia. D’altronde quando la fotografia irruppe nella società, il ritratto fu subito quello che prese il sopravvento, la cosa che tutti chiedevano e volevano avere. Penso sempre a quelle migliaia di pittori ritrattisti che dovettero di colpo cambiare mestiere o trasformarsi in fotografi. D’altronde farsi fare un foto costava meno che farsi ritrarre in un quadro, era una cosa alla portata quasi tutti e anche più rapida, e poi contava molto la somiglianza. Cosa che spesso in un quadro non c’era abbastanza, ma nella foto si. Quindi fu il trionfo della fotografia ai danni della pittura. Comunque per me il ritratto è l’incontro diretto con un’altra persona. Sui ritratti ho scritto libri, di ritratti ne ho fatti a migliaia, e dunque il tema mi appassiona sempre”.

I suoi ritratti sono sempre in bianco e nero. Ho letto da qualche parte anche una sua dichiarazione in cui dice di sognare pure in bianco e nero…
“Ma sì, lo dico perché io “vedo” in bianco e nero, ho cominciato a fare foto quando in pratica c’era solo il bianco e nero, e quindi questa cosa mi è rimasta attaccata. Anche ora che non faccio fotografie…”
Lei ha vissuto a lungo a Parigi, dove è stato, dal 1982, uno dei fotografi di punta della mitica agenzia Magnum, insieme ad altri miti come Henri Cartier-Bresson. Anzi, fu il primo italiano a farne parte. Che esperienza è stata? C’era concorrenza fra voi grandi fotoreporter della Magnum?
“C’era concorrenza ma anche collaborazione, come sempre, come succede in tutti i campi. Io e Cartier-Bresson siamo diventati molti amici e fu lui a convincermi a lavorare per l’agenzia come fotografo indipendente. Ma dopo dieci anni, quando sentii dire che le mie foto erano “bressoniane”, ho preferito tornare in Italia, anche se erano gli anni bui del terrorismo”.

Lei però ha sempre viaggiato molto, in Europa in lungo e in largo, è stato India, sulle Ande. Andò anche a New York dove realizzò un grande reportage…
“Mi ricordo bene, era il 1985. Feci delle foto un po’ diverse, a Manhattan, al ponte di Brooklyn, e c’era la nebbia, poi ricordo la metro, le strade, la gente. Una città con mille facce”.

Concludiamo questa intervista con qualcosa di indimenticabile: le sue straordinarie foto siciliane per Dolce e Gabbana. Davanti al suo obiettivo passarono Mariagrazia Cucinotta, la modella Marpessa, Monica Bellucci, tutte lì a posare per lei. Dal reportage si ritrovò perciò catapultato di colpo nel mondo “effimero e dorato” della moda. Come successe?
“Andò così. Un giorno mi arrivò in studio una telefonata, era Domenico Dolce, siciliano come me, anzi della provincia di Palermo come me. Mi disse che un suo amico o un suo collaboratore, che tra l’altro io nemmeno conoscevo, aveva visto una mostra di mie foto, ed era rimasto colpito dallo stile delle immagini. E Dolce mi chiese a quel punto se potevo o volevo fare anche qualcosa per loro, scattare delle fotografie particolari, un catalogo originale, scegliendo qualcosa di siciliano. Volevano insomma un fotografo diverso, non il solito fotografo di moda”.

E lei accettò…
“Si, certo, perché ero curioso, della moda sapevo ben poco, quel mondo mi era lontano. Il caso comunque nella vita, e soprattutto nella vita di un fotografo, può giocare strani scherzi: perché l’amico di Dolce, e l’ho saputo tempo dopo, non aveva mai visto le mie foto. Aveva visto quelle di un altro fotografo. S’era sbagliato insomma. Ma è andata bene lo stesso. Sia a me e sia a loro, no?”

All’inizio dell’intervista lei mi ha detto che scrive e non fa più fotografie. Non ci posso credere…
“Non ne faccio più in senso organico, cioè non giro più come un tempo per fare reportage. L’ultima cosa che ho accettato di fare è un libro fotografico sui 500 anni del ghetto ebraico di Venezia. Ma ho accettato anche perché in fondo c’era poco da camminare, quindi mi andava bene”.
Quindi addio foto e solo scrittura?
“No, resto anche un fotografo. E’ vero che la scrittura mi sta dando tanto in questi anni, ma io in fondo sono molto più felice quando torno impugnare una macchina fotografica”.
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