Per approfittare di una rara opportunità di andare oltre l’attuale comprensione giuridica/mediatica del fenomeno mafioso – sia quello squisitamente criminale sia, soprattutto, quello culturale – si può leggere La notte della civetta, il nuovo libro di Piero Melati, giornalista e palermitano, nato e formato sul campo. Da individuo, senza metodo e scienza, mette mano sul proprio inconscio e lo condivide. Da autore non seppellito.
Questo ragionato memoir di Melati sbroglia il suo pensiero che si trova a metà tra quelli di Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone; tra il giudizio intellettuale e il giudizio giuridico. Nella tradizione dell’Io so di Pasolini (e poi di Ingroia): Io so, ma non ho le prove. Le esperienze di vita che ha vissuto (non impunemente); le testimonianze dirette fatte con cognizione di causa; le emozioni provocate in lui, da vicino; il pensiero maturato e le dovute umane conclusioni tratte da Melati sono le sue prove: fanno il suo prezioso patrimonio umano che ci offre – a noi i suoi compagni di viaggio nella tomba – senza badare troppo alla nostra recezione o meno della sua offerta.
Lui c’era. Con tutto il cuore e la mente. Gli basta. Per noi lui cerca di ricomporre per un istante delle cose colte nella loro vera natura. Il suo pensiero critico viene da un punto di vista più equilibrato e veritiero della storia con la S maiuscola perché supera i limiti artistici e giuridici non impostati a chi c’era, a chi l’ha vissuto nel suo momento individuale, con un cuore pieno di dolore e di amore. Questo patrimonio del suo vissuto, e ora qui raccontato, è un regalo per noi senza prezzo.

Poi, piuttosto come un vagabondo libero, lui pianta finalmente il suo bindlestiff, il suo sacco sulle spalle, con questo patrimonio dentro come il peso di una città. Così come il narratore del libro, il suo personaggio senza nome che se ne va. Ma non prima di lasciarcelo a noi, piantandolo ai nostri piedi. Non senza prima raccomandarsi che dobbiamo interrogarci ancora, cominciare a lavorarci sopra noi, appunto perché non l’abbia capita mai nessuno questa storia. Che il lavoro di capire questa storia non è ancora finito; non finisce mai. Andandosene, forse spera di far calare la notte sull’quel Giorno della civetta sciasciano in modo che noi potremo scriverci un nostro altro giorno nuovo.
Apprezzo molto il contesto fresco che lei dà agli eventi che sono passati alla storia con una risonanza ormai scontata ma che, ricordati e rievocati da lei qui, assumono importanze non riconosciute prima; il flagello della droga prima fra tutti, l’ovvietà inosservata. Oltre che da giornalista attento alla società completa, questo fenomeno orribile iniziato con la sua generazione le ha toccato da ancora più vicino?
“Credo che il fenomeno delle “ovvietà inosservate” caratterizzi soprattutto il nostro tempo. Un male che è stato ben rappresentato dal racconto di Poe sulla lettera rubata: qualcosa è stato nascosto davanti ai nostri occhi eppure non lo vediamo. Nel caso specifico, mi sono accorto che il massacro di fine anni Settanta di una generazione era legato all’invenzione da parte della mafia siciliana del traffico internazionale di droga come lo conosciamo oggi. Me ne sono accorto perché quel fenomeno ha riguardato direttamente la mia generazione, e dunque ne ho visto gli effetti materiali nella vita di tanti amici e conoscenti stroncati da quella peste. Ma gli esempi delle “ovvietà inosservate” sono innumerevoli. Purtroppo ce ne accorgiamo solo quando in qualche modo ci colpiscono in prima persona o colpiscono i nostri amici e conoscenti. Altrimenti rischiamo di non farci neppure caso”.
Avendo l’estate del 1985 come punto messo a fuoco del periodo coperto nel libro, scrive molto sul Vice Questore Ninni Cassarà, uno dei poliziotti più attivi ed efficienti del tempo. L’ha conosciuto anche al di fuori del suo ruolo da giornalista?

“Il dottor Cassarà era parente di alcuni miei familiari, che hanno partecipato al lutto della famiglia dopo il suo omicidio. Alcuni miei amici lo avevano inoltre conosciuto per motivi non professionali. Così ho avuto un ritratto di lui non solo come funzionario di polizia ma come uomo. L’uomo Cassarà era diverso anche quando faceva il poliziotto. Ad esempio non perseguitava mai i pesci piccoli del crimine o i consumatori di droghe, perché puntava sempre a catturare i grandi latitanti, a indagare sui potenti e a colpire i veri boss, a differenza di altri suoi colleghi di quel tempo che hanno preferito non esporsi”.
Lei onora molti scrittori con diversi riferimenti nel suo libro. Giuliana Saladino, Alessandro Chiolo, Nanni Balestrini, Ernesto De Martino, financo Dashiell Hammett (cioè il suo, Raccolto rosso). La sua menzione di Gorgia da Lentini mi ha preso alla sprovvista.
“Sciascia dice che l’antico filosofo Gorgia da Lentini è stato di ispirazione a Pirandello e aggiunge che capire Pirandello è comprendere la Sicilia. Credo che la cultura, antica e moderna, se riscoperta in profondità, ci possa offrire chiavi di lettura nuove. Gorgia ha fatto un discorso pubblico sul concetto di “eroe” molto attuale. Per noi gli “eroi” sono spesso semidei senza difetti, da rievocare con troppa retorica, esempi quasi inimitabili. Gorgia dice invece che sono uomini come noi che, in certe condizioni date, hanno fatto la cosa giusta. Dunque possiamo farla anche noi. La trovo una differenza importante”.
In Notte della Civetta oltre a le scritture della più conosciuta Hannah Arendt, lei condivide quelle di Giuliana Saladino con particolare attenzione. Le ha ispirato più come abile giornalista di cronaca o come scrittrice / intellettuale? Ci sono dei giornalisti che legge oggi con assidua attenzione?
“Giuliana Saladino è stata una grande scrittrice oggi quasi dimenticata. È stata la più vicina ad Hanna Arendt, a proposito del concetto di totalitarismo applicato al regime mafioso siciliano. Lei lo ha definito così. Nessun altro lo ha fatto. Oggi leggo molto Don Winslow, in particolare i suoi libri sul Messico. Non è un giornalista ma attinge molto da fonti giornalistiche per i suoi romanzi, che a volte sembrano quasi reportage”.

Ha una scrittura molto orientata ai dettagli, da giornalista-giornalista. Penso ai proiettili e le minuzie dell’uccisione di Cassarà. La ricerca ha avuto un ruolo importante nella stesura di Notte… oppure è stato scritto più dai puri ricordi delle emozioni ed esperienze vissute?
“Ho cercato di legare l’emozione dei ricordi personali con una ricerca minuziosa di particolari tratti da perizie balistiche. Ci sono alcuni dati materiali, studiati nei laboratori della polizia scientifica, che spesso rendono un fatto da raccontare molto più concreto e profondo rispetto a tanti generici sentimentalismi”.
La tempistica dell’uscita del libro è collegata in qualche modo speciale a dove si trova ora come scrittore nella sua vita?
“Ho sentito il bisogno di ricapitolare quegli anni siciliani, dall’inizio degli anni ‘70 al maxiprocesso alla mafia del 1986. Tante cose erano state dette ma altrettante sono state rimosse. Ho sentito l’urgenza di lasciarle scritte, a futura memoria”.
C’è una frase potente nel libro, a proposito degli omicidi di Cassarà, di Antiochia, della Fata Morgana: “…ho già avuto esperienza di questi miraggi…Mi tormentano, certo, ma non me ne spavento più. Neppure mi illudono, però. Non portano a nulla, state certi.” [pagina 183] Una delusione totalizzante. Riesce ad apprezzare questo libro stesso come una possibile risposta a quella sconfitta-miraggio?
“Conosco un solo antidoto all’amarezza della sconfitta. È la possibilità di testimoniare, di non tacere mai, di andare fino in fondo alle cose che sono veramente accadute. A volte è l’unica forma di dignità che resta a un uomo”.
L’idea di Sciascia deluso, e non consolato da Camilleri, dagli applausi per l’immagine cinematografico di Don Mariano Arena mi ha fatto pensare alla popolarità del Padrino di Coppola – ideato in modo romantico senza pari – capace, giù da lì nel tempo di riempire le mura delle pizzerie di mezzo mondo, omaggi a una distorta e fuorviata italianità. Ha mai riflettuto sull’incapacità o mal volontà di correggere questi torti di rappresentazione del fenomeno?
“L’immagine distorta dell’italianità si è diffusa perché, secondo me, non siamo riusciti a raccontare i “buoni” e coloro che hanno combattuto la mafia con altrettanto fascino rispetto a quello che emanano i padrini. Abbiamo troppo depurato e sterilizzato coloro che sono caduti battendosi contro la mafia, per farne dei santi civili. Raccontarli invece anche con i loro difetti li renderebbe più umani ma anche più affascinanti. Erano uomini con un coraggio che la maggior parte dei padrini non ha mai posseduto”.
Perché non sono stati ricordati di più dal grande pubblico personaggi come Pippo Fava, Rita Atria e tanti altri esempi delle forze di opposizione alla cultura mafiosa?
“Pippo Fava è una persona scomoda da ricordare, perché era un intellettuale che diceva che la vera mafia non era fatta di killer e manovali ma da banchieri e finanzieri. Aveva ragione, mentre il potere ufficiale ha sempre la tendenza a fare della mafia un fenomeno fatto solo di sicari e gangster, trascurando le implicazioni economiche e gli intrecci con il potere ufficiale. Rita Atria è altrettanto poco ricordata perché ha detto che la mafia è anche dentro ognuno di noi e che per combatterla veramente ognuno di noi dovrebbe cambiare anche intimamente. Nessuno ci tiene a mettere la questione così”.

Ha una preferita tra le opere di Sciascia per un motivo preciso?
“Non ho un libro preferito di Leonardo Sciascia. La vera ricchezza di questo scrittore si ritrova leggendo il più possibile delle sue opere, persino gli scritti minori. Non serve solo a capire la Sicilia, serve a comprendere il mondo”.
C’è un altro libro che vorrebbe scrivere, l’idea per il quale è emersa da un aspetto scoperto durante la stesura di Notte della Civetta, che non ha potuto sviluppare come le sarebbe piaciuto?
“Per me l’importante sarebbe raccontare l’inferno e le sconfitte, come hanno fatto tanti scrittori sudamericani e messicani, facendone una forma della letteratura. Così c’è salvezza”.
Notte… è pieno di cronaca nera e di intima riflessione personale. C’è stato un momento in cui si è trovato sorpreso da ciò che ha visto oggi in quel passato vissuto così intensamente?
“Da tempo avevo in cuore di scrivere queste cose. Ci ho messo anni a elaborarle. E sono state, alla fine, una sorpresa e una fortissima emozione anche per me. Ho pensato spesso alle migliaia e migliaia di vittime di droga in tutto il mondo, alle altre migliaia di morti per gli effetti collaterali di quella peste (epatiti, AIDS, salute rovinata e decessi in giovane età). Sono state tutte vittime del traffico internazionale di droga prima della mafia siciliana, che lo ha inventato, e ora di altre organizzazioni criminali. Eppure tutte queste vittime oggi non hanno neppure un nome, un volto, una storia. Sono scomparse come se non fossero mai nate. Trovo questo orrore intollerabile. È un olocausto rimosso dalla Storia che continua in tutto il mondo ancora oggi”.
Come se la passa questo periodo cosi storico per la nostra esistenza collettiva? Riesce a lavorare e scrivere attualmente come vorrebbe al tempo della pandemia da Covid-19?
“In questo periodo di lunga quarantena ho continuato a lavorare, a leggere, a studiare. Il coronavirus non è stato la cosa peggiore che mi sia capitata nella vita. Tra le peggiori, forse, ma non la peggiore”.
Il concetto della musica blues sta nel sapere che “ora stiamo messi veramente male. Ma domani sarà migliore”. Ha un blues personale che le permette di farcela?
“Lei ha ragione. Ogni uomo ha il suo blues. Non saprei dirle esattamente quale sia il mio. Ma penso che abbia a che fare con l’amore, con il molto amore che provo per tutto quello che posso conoscere e che mi faccia sentire, nel bene e nel male, un uomo nel mondo”.
Autore: Piero Melati
Editore: Zolfo 2020