Bruna è romana ma abita negli Stati Uniti da vent’anni, a New York, dove insegna scienze politiche all’università. L’incontro con uno dei suoi studenti, Yunus, porta in superficie tutte le spaccature che da tempo condizionano la sua vita, tra il complicato rapporto con la famiglia italoamericana del marito, la precarietà sul lavoro, la fragilità del suo matrimonio e la difficoltà di essere una madre lontana sia dall’Italia sia per certi versi dall’America stessa.
Ambientato nel 2016, all’indomani della vittoria di Trump, Gotico Americano è un racconto che offre al lettore un vero e proprio condensato di molti dei temi individuali e collettivi dell’America di oggi, definendo un quadro complesso e brutale che mai come in questi giorni si rivela di sconcertante attualità. È il terzo titolo della collana “Munizioni” edita da Bompiani diretta da Roberto Saviano, primo romanzo a essere pubblicato dopo il memoriale di Daphne Caruana Galizia e l’inchiesta giornalistica di Nacho Carretero dedicata al narcotraffico spagnolo.
L’autrice, Arianna Farinelli, è una politologa e insegna scienze politiche al Baruch College della City University of New York. Alla luce dei fatti degli ultimi giorni, l’abbiamo contattata per parlare del suo romanzo e della preziosa storia che racconta, senz’altro in grado di aiutare i lettori a comprendere meglio ciò che succede e succederà negli Stati Uniti.
Come tu spieghi nella postfazione, l’idea di Gotico americano nasce da un articolo del 2016 uscito sul New York Times riguardante un ragazzo americano diventato un reclutatore dell’Isis. Nel libro c’è infatti un particolare equilibrio tra finzione e saggistica e proprio per questo motivo si inserisce perfettamente nel contesto della collana “Munizioni”. È il romanzo ad aver trovato la collana o è stata la collana ad aver trovato il romanzo?
“Ci siamo trovati a vicenda, credo. Ho finito di scrivere il romanzo nell’estate del 2018 e l’avevo mandato a diverse case editrici. Bompiani è stata la prima a credere in questa storia e con Roberto (Saviano, ndr) hanno pensato che calzasse bene per la collana. Oltre a parlare di una storia familiare e di una storia d’amore, è un romanzo ambientato nel nostro tempo, che racconta il nostro tempo e che è intriso di temi sociali, che sono poi quelli che io insegno all’università. Nel 2016 stavano succedendo alcune cose negli Stati Uniti e nel mondo che sentivo l’urgenza di dover raccontare: la guerra in Siria, la Brexit, l’elezione di Trump. Nel romanzo parlo anche di tensioni razziali, della brutalità della polizia, degli afroamericani ammazzati dai poliziotti nonostante fossero disarmati, di poliziotti impuniti, di Colin Kaepernick, l’ex-quarterback dei San Francisco 49ers, che proprio nel 2016 si inginocchiò durante l’inno nazionale e che Trump accusò di essere irrispettoso dei valori della bandiera, dell’inno e dei veterani di guerra. Proprio il gesto di Kaepernick torna in questi giorni perché la sua immagine è stata associata dalla figlia di Martin Luther King a quella del ginocchio premuto sul collo di George Floyd. Quindi quello che io racconto nel 2016 in realtà potrebbe essere ambientato esattamente in questi giorni di tensioni razziali. Questa è un po’ la genesi di tutto. Sono contenta che il mio libro sia in questa collana perché al suo interno c’è molta saggistica, dato che nasco come politologa prima di diventare scrittrice”.

In alcune scene e in alcuni dialoghi c’è una particolare vocazione didascalica. Pensi ciò dipenda dal tuo essere una professoressa e dunque da una precisa forma mentis? Ciò che racconti e spieghi fornisce infatti moltissimi spunti per esempio ai lettori giovani, particolarmente sensibili ad alcune tematiche che tu tratti. Avevi in mente un lettore ideale e implicito per questa storia?
“Ho ricevuto centinaia di messaggi da lettori di tutte le età, da ragazzi del liceo fino a persone di settant’anni, quindi ogni lettore si è ritrovato in questa storia perché i protagonisti hanno età diverse. Ci sono i bambini, c’è Yunus che è un ventenne, ci sono Bruna e il marito che hanno quarant’anni e i suoceri di Bruna che sono settantenni. Sono rappresentate diverse generazioni e diversi modi di vivere l’America. Quello che mi dici mi fa pensare che in realtà quando scrivevo il romanzo lo facevo come se fosse una lezione universitaria. Ci sono degli episodi nel romanzo in cui Bruna fa una vera e propria lezione e spiega il concetto di nemico, di identità, del ritorno alla religione, quella che in scienze politiche si chiama revanche de Dieu, la vendetta di Dio. Forse proprio in quei momenti anche io in qualche modo facevo la lezione che ho sempre fatto ai miei studenti, spiegavo loro che cos’è lo scontro di civiltà, se religioni diverse possono dialogare. Magari avevo in mente un po’ i miei studenti, però quando il romanzo è uscito in Italia ha avuto lettori assolutamente eterogenei per quanto riguarda le fasce d’età. Vedremo poi come sarà recepito negli altri Paesi in cui verrà tradotto (Gotico americano uscirà presto in tedesco, olandese e spagnolo, ndr)”.

Infatti pensavo anche alla scena dello studente italoamericano di Bruna, che con la sua domanda permette di affrontare direttamente il tema della condizione degli afroamericani.
“Lì sembra un escamotage letterario ma realtà quello studente me l’ha fatta davvero quella domanda! Lo dico perché altrimenti si può credere che abbia messo insieme i personaggi e certe scene solo per dire determinate cose, invece è successo che nella mia vita mi sono state poste domande come quella che poi ho messo nel romanzo. È vero che gli americani non conosco la propria storia. Tante persone oggi si domandano: perché gli afroamericani fanno così? Tutto questo casino perché quest’uomo è stato ammazzato da un poliziotto? Alla fine era un pornoattore, non vedeva la famiglia da quindici anni… Adesso c’è tutta una macchina del fango attorno a George Floyd. A prescindere da quello che lui faceva nella sua vita, è stato ammazzato in una maniera brutale, ma tante persone si chiedono il perché di questa rabbia. Perché purtroppo non si conosce la storia, non è soltanto il lettore italiano che non studiando queste cose a scuola non le conosce. Non le conoscono neppure gli americani”.
Gli stessi italoamericani, e tu lo rappresenti benissimo attraverso la famiglia dei Bene, i suoceri della protagonista, essendo spesso molto conservatori dimenticano la propria storia, quella degli italiani in America, e sostengono la politica anti-immigrazione di Trump.
“Sì, molti di loro credono che se sono arrivati dove sono ora sia grazie al loro merito. E questo in parte è vero, ovviamente. Molti sono diventati professionisti, la prima generazione è andata subito al college, ha fatto dottorati di ricerca, si è specializzata, esprimendo medici, professori universitari, scienziati. Poi ci sono italoamericani che non hanno fatto questo tipo di percorso, ma comunque tutti credono che sia stato solo il merito personale. In realtà c’è una grandissima differenza tra italoamericani e afroamericani, così come fra gli afroamericani e tutti gli altri gruppi etnici. Nessun gruppo etnico ha subito duecentocinquant’anni di schiavitù, novant’anni di leggi di segregazione e poi tutto quello che è avvenuto dopo e che racconto nel romanzo, dall’incarcerazione di massa al fatto che venivano loro negati i mutui per comprare la casa. Gli americani bianchi di tutte le nazionalità – irlandesi, italiani, polacchi, tedeschi – hanno potuto comprare una casa e diventare classe media, perché la casa è il bene più importante che una persona compra nel corso della vita ed è qualcosa che rimane per le generazioni successive, quindi è una ricchezza che si crea. Invece gli afroamericani potevano comprare solo le case a contratto e ciò significava che, se mancava anche solo una rata mensile del mutuo, perdevano la casa, i risparmi, la caparra e tutti i soldi pagati precedentemente. Ecco perché gli afroamericani vivono ancora nei ghetti. Ciò che è successo loro non è un caso, è stato voluto. La povertà è stata scientemente creata in quel modo”.

Non so se dipende dalla cultura o dalla vastità del Paese, ma è come se molti americani vivessero in una bolla che impedisce loro di interessarsi a quello che succede al di fuori di essa e di comprendere il perché di tanta rabbia o di tanta povertà, portandoli a giustificare tutto banalmente come un fatto culturale.
“Esatto, perché è molto più facile dire che gli afroamericani sono pigri, che non vogliono lavorare, che mettono incinte le adolescenti e non si prendono cura dei propri figli anziché cercare di capire le ragioni per cui determinate cose succedono e questo ho cercato di mostrarlo anche quando il romanzo si sposta in Medioriente. Ho provato a raccontare qual è la storia della Siria, dell’Iraq, di Mosul, che non comincia oggi con l’Isis ma almeno cento anni fa quando i francesi e gli inglesi si sono spartiti quel territorio tracciando confini a piacimento e senza capire quale religione ci fosse in un determinato posto e quale in un altro. Perché lì c’è proprio la linea di confine tra sunniti e sciiti e loro hanno messo una città a maggioranza sunnita, come Mosul, in un Paese a maggioranza sciita come l’Iraq. Perciò tutto quello che succede non è casuale e ho cercato di raccontarlo attraverso una storia e non con una narrazione saggistica”.
Ci sono delle associazioni banali, per cui il musulmano è un terrorista, l’afroamericano è un criminale. Nel romanzo ogni personaggio riflette sul concetto di identità e anche Bruna a modo suo vive una contraddizione dal punto di vista etnico, essendo in un certo senso troppo italiana per gli americani e troppo americana per gli italiani. C’è la scena molto bella del suo giuramento per ottenere la cittadinanza americana in cui è come se si ritrovasse in una specie di limbo culturale e questo mi faceva pensare che noi italiani forse non siamo poi così amalgamati e assimilabili alla cultura e alla società statunitense come pensiamo. Malgrado le differenze rispetto ad altre minoranze, credi che essere italiano in America costituisca ancora un fattore di non assimilazione?
“Questo vale per tutti i gruppi etnici. Le associazioni di cui parli, del musulmano terrorista, l’afroamericano che spara alla polizia, l’ispanico stupratore, hanno costituito la campagna elettorale di Trump nel 2016. Per quanto riguarda l’assimilazione o l’integrazione di chi lascia il proprio Paese per andare a vivere altrove, a un certo punto non sai più chi sei e a quale cultura appartieni, perché per molto tempo non ti senti perfettamente integrato nel nuovo Paese in cui vivi. Allo stesso modo, quando torni nel posto da cui sei partito, ti senti di non appartenere più a quella realtà. Quando Bruna torna a Roma e ritrova la sua amica d’infanzia che le consiglia di far curare il figlio transgender dicendole che questi problemi derivano dal rapporto con la madre, lei sente di non c’entrare più nulla con quella realtà e con quella mentalità. Questo accade spesso a chi si trasferisce, di trovarsi in questo limbo. Bruna si rifiuta di giurare di “distruggere i nemici dell’America” e in quel capitolo racconto di come veniva chiamata aliena all’aeroporto, una cosa che mi è successa e che succede a tutti gli immigrati, anche legali. Sono alieni finché non diventano cittadini americani. Tu sei residente in questo Paese ma sei considerato comunque un alieno, hai un numero alieno. Si tratta di una parola fortissima, tant’è che molti stati, come la California, l’hanno abolita. Alieno vuol dire che tu non appartieni neppure al genere umano. Si potrebbe dire “straniero”, che anch’essa una parola forte, ma alieno è davvero una parola discriminante. Poi però Bruna dice di essersi alzata una mattina e di aver sentito di far parte di quel progetto, di un Paese che non ha colore politico, colore di pelle, che non ha una particolare religione, dove i giovani emergeranno e manterranno tutte le promesse della Dichiarazione di Indipendenza per cui all men are created equal e sono dotati di “inalienabili diritti” tra cui il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Lo hanno scritto a Philadelphia nel 1776 ma duecentocinquant’anni dopo i fatti di questi giorni ci dicono che non siamo assolutamente a questo punto”.

Uno dei passaggi più belli del romanzo è proprio quando il figlio di Bruna, Mario, nella delicata riflessione sulla propria identità, dimostra una scissione anche del punto di vista linguistico, quando dice: “I punti nel baseball si contano in inglese. I baci di sua madre si assaporano in italiano”. Forse l’ottimismo della protagonista è mostrato in modo particolarmente evidente attraverso i personaggi di Mario e Minerva?
“La speranza nel romanzo sono i ragazzi. Quando Minerva vuole andare ad aiutare il fratello alle prese con il bullo, vede che lui ha capito tutto da solo. Quel fratello che lei ha dovuto proteggere dai compagni di scuola, dai nonni paterni e dagli stessi genitori ora insegna a lei qualcosa, cioè che opporsi non vuol dire odiare, infatti Mario si oppone al bullo scaraventandolo a terra con una testata ma alla fine lo aiuta e da lì si costruisce un’amicizia. Capisco che può sembrare un po’ utopico, però noi ci vogliamo augurare che le nuove generazioni facciano proprio questo, opponendosi senza violenza e costruendo un dialogo. Bruna stessa non parla più con i suoceri e ammette di non sedersi a bere mai un caffè con una persona che la pensa diversamente da lei. Il punto è proprio questo. La società qui è estremamente polarizzata, in Italia e in Europa. Nessuno parla con chi la pensa diversamente. La speranza dunque sono le nuove generazioni. Yunus, che sacrifica tutto per seguire il suo migliore amico, come lui orfano di padre, è un personaggio molto positivo, che fa una scelta radicale e quasi irrazionale, basata sull’amore incondizionato che lui sente per il suo amico Mohammad. Così lo segue fin dentro la pancia della balena, che è Mosul ma che è anche New York o la prigione di Rikers Island, è una realtà metafisica che poi è la solitudine dell’uomo”.

È bello come Yunus faccia conoscere a Bruna anche una New York diversa da quella a cui lei è abituata. Con Gotico Americano offri infatti una mappatura della città lontana da quella che si vede in narrativa e che appartiene all’immaginario classico. La New York che racconti tu tra l’altro è quasi profetica, se pensiamo alla città degli ultimi mesi, tra lockdown e ora persino coprifuoco e rivolte. Pensi che il racconto stesso di New York non potrà più prescindere da ciò che è accaduto e accade? La città sarà inevitabilmente diversa da quella che conoscevamo?
“Io penso che tutti guardiamo le stesse cose. La differenza la fa quello che riusciamo e sappiamo vedere, quello che vogliamo vedere. Mi auguro che New York venga vista per quello che è, una città estremamente segregata. Perché ci sono così tanti contagi e morti nel South Bronx, nei quartieri del Queens come Corona, Elmhurst, Jackson Heights, o a Flatbush, a Brooklyn? Perché così tanti meno casi a Manhattan, dove tra l’altro quattrocentomila persone sono scappate all’inizio di marzo? Tutto questo non è un caso. Questa è una città che, come diceva Charles Dickens, è composta da due città insieme, la città dei ricchi, rappresentata da Manhattan e alcune parti di Brooklyn, e poi la città dei poveri, che sono i lavoratori essenziali, le persone senza assicurazione, le minoranze etniche. Vedremo New York per quella che è nel futuro? Non lo so. Anni fa lessi il primo libro di Barack Obama dove raccontava che viveva tra la 96esima strada e la First Avenue, vicinissimo a casa mia, però dalla parte dove inizia l’Harlem spagnola. Diceva che quelli che abitavano sulla parte a sud della 96esima, dove è ancora Upper East Side, portavano i cani a fare i bisogni sulla parte a nord, sotto casa sua, perché tanto lì non raccoglievano, come se fosse un’altra città. È proprio questo il punto. Qui ci sono diverse città, non c’è una città sola. E la città ricca non si interessa della città dei poveri. L’Upper East Side è il quartiere più ricco degli Stati Uniti e il South Bronx è invece uno dei quartieri più poveri, eppure sono a distanza di pochi chilometri l’uno dall’altro. Sono quartieri che non si sfiorano. C’è una parte di New York che lavora per servire l’altra parte della città, quella produttiva, di Wall Street”.
È come se i newyorkesi e in larga scala gli americani convivessero nello stesso spazio senza la possibilità di vedersi veramente e di conoscersi.

“Qualche giorno fa parlavo con una mia amica della differenza di casi di coronavirus tra Manhattan e il Queens e South Bronx, dove c’è stato un numero quattro volte superiore di ammalati. Secondo lei ciò dipendeva dal fatto che in quei quartieri non indossano la mascherina, mentre qui a Manhattan ce l’hanno tutti. È una persona intelligente eppure non sa niente di quello che succede lì! Le persone non hanno l’assicurazione e partivano già da condizioni di salute precarie e sono loro che guidano la metropolitana, gli autobus, che sanificano le strade. Quella realtà lì lei non la conosce e quindi crede in qualche modo se la siano andata a cercare. Come è possibile che una parte di città non sappia cosa succede nell’altra? È come noi nel mondo occidentale che non sappiamo assolutamente cosa succede nei Paesi in via di sviluppo. Quando una società lascia indietro un pezzo, ne paga essa stessa le conseguenze. La città di New York ha quasi nove milioni di abitanti e da sola ha avuto ventimila morti, quasi quanto l’Italia intera che ha una popolazione di sessanta milioni di persone. Evidentemente c’è qualcosa che non va e ti rendi conto che sono le disuguaglianze, le sacche di povertà, la mancanza di assicurazione sanitaria, gli stipendi bassissimi, i quartieri-dormitorio. Tutto questo messo insieme rende la pandemia razzista, ma il virus non c’entra niente, è la società a esserlo”.

Tutto ciò ha anche conseguenze politiche. Il 2020 sarà un anno decisivo per tutto il mondo e in particolare per gli Stati Uniti dove, tra le varie cose, a novembre ci saranno le elezioni presidenziali. Da politologa, così come da cittadina americana e da scrittrice, che tipo di Stati Uniti pensi che ci troveremo ad affrontare, a vivere e a dover raccontare da novembre in poi?
“Sono mesi cruciali perché vedremo la crisi economica in tutta la sua magnitudine e in tutto il suo orrore. All’inizio di luglio finiranno i sussidi di disoccupazione e il blocco degli sfratti, quindi aumenterà la fame e aumenteranno le tensioni sociali e razziali. Bisogna vedere come Trump affronterà tutto questo. Il discorso che ha tenuto nel Rose Garden della Casa Bianca è stato incendiario, perché ha detto di essere il Presidente della legge e dell’ordine, una cosa che aveva detto Nixon nel 1968, anno di grandissimi scontri e contestazioni, l’anno in cui è morto Martin Luther King. Con quella frase Nixon vinse le elezioni e Trump spera di fare lo stesso, di capitalizzare quello che sta succedendo, dicendo che lui ristabilisce l’ordine, che è il Presidente che protegge gli americani, le loro famiglie e i loro business. Utilizzando una legge del 1807, ha dato mandato di utilizzare l’esercito, dicendo che i manifestanti si troveranno faccia a faccia con soldati ben armati. Alcuni governatori si sono opposti, ma se interviene l’esercito le cose peggiorano, ci possono essere molti più morti. La situazione potrebbe insomma favorire Trump proprio in un momento in cui era in grandissima crisi. È indietro nei sondaggi, soprattutto negli stati in bilico, per via della crisi economica e degli errori gravissimi che ha commesso nell’affrontare la pandemia. Se avessimo chiuso l’economia anche solo una settimana prima avremmo avuto trentamila morti in meno. Aveva detto che il virus cinese non sarebbe arrivato negli Stati Uniti, che i casi sarebbero scomparsi in poche settimane, che il virus sarebbe sparito ad aprile con il caldo e invece a New York ad aprile avevamo ottocento morti al giorno. Tutti questi errori lo hanno fatto scendere nei sondaggi, poi però le tensioni razziali e soprattutto i saccheggi giocano un ruolo diverso di cui lui si potrebbe approfittare. Poi c’è la geopolitica. Mi preoccupa molto questa propaganda e questa retorica anticinese. Ovviamente la Cina è una dittatura e quello che fa ad Hong Kong, a Taiwan e contro i cinesi musulmani deve essere condannato da tutto l’Occidente, però mi sembra che per tantissimo tempo siamo stati in silenzio mentre adesso ci viene comodo puntare il dito. Qui la Cina è utilizzata per la campagna elettorale come il capro espiatorio della pandemia. La Cina ha tantissime responsabilità, però questo tipo di retorica ci pone su una passerella traballante che potrebbe condurci dritti alla guerra. Sono in gioco tantissime cose a livello regionale, nazionale, e internazionale”.

Non pensi che questa mobilitazione seguita all’uccisione di George Floyd possa rafforzare la base di Biden e portare ancora più afroamericani e minoranze ad appoggiare l’unica alternativa a Trump?
“Sì potrebbe essere, ma Biden non è un candidato forte e carismatico. Ha il supporto degli afroamericani ed è importante, perché nel 2016 Hillary Clinton ha perso anche per il mancato appoggio della cosiddetta rainbow coalition che aveva eletto Obama. Pur avendo vinto in termini assoluti di numeri, con due milioni e mezzo di voti in più rispetto a Trump, Clinton ha perso negli stati-chiave e bisognerà perciò vedere cosa succederà qui. Le elezioni non si vincono soltanto con le minoranze etniche, i giovani, gli omosessuali, gli intellettuali e le donne. C’è bisogno della classe media, della classe operaia, dei bianchi. Queste persone negli stati in bilico come la Florida, il Michigan, la Pennsylvania, l’Ohio e il Winsconsin, stanno soffrendo. Non si erano mai ripresi dalla crisi del 2008, figuriamoci adesso, dove alla delocalizzazione e alla depressione economica si è aggiunge la disoccupazione, la perdita dell’assicurazione sanitaria. I democratici hanno bisogno di quell’elettorato lì, non si può pensare di vincere un’elezione solo con le minoranze. Biden deve essere bravo a mobilitare anche i bianchi. Trump però fa un discorso politico forte, di presa, in questo è molto bravo. Tutto il reality show di ieri sera (1 giugno, ndr), quando è andato di fronte alla chiesa e ha alzato la Bibbia, con i manifestanti pacifici caricati dalla polizia con i lacrimogeni e gli spray al peperoncino, le manganellate. Tutto questo fa bene alla base di Trump, perché fa vedere un Presidente forte che prende in pugno la situazione. Questa retorica a me non fa nessun effetto e la trovo ridicola, ma per la sua base funziona”.

Tornando a parlare del tuo romanzo, per concludere, ho letto che Gotico americano è il primo capitolo di una trilogia dedicata all’America. Stai già lavorando al secondo?
“Nel prossimo romanzo volevo parlare delle deportazioni di immigrati illegali da New York, che è stato un tema degli ultimi quattro anni. In realtà Obama aveva già deportato due milioni e mezzo di persone ma le deportazioni sono continuate con Trump che addirittura alla frontiera con il Messico separa i genitori dai figli. Ci sono state moltissime retate per esempio all’uscita dalle chiese, dove prendono gli immigrati illegali spesso sudamericani che magari vivono qui da tanto tempo, hanno figli e nipoti americani, essendoci qui lo ius soli, e poi li portano in questi centri di detenzione, dove però ora c’è il Covid-19. Molti vengono deportati, è difficilissimo che tu riesca a vincere la battaglia legale per rimanere qui. In America ci sono undici milioni di persone che vivono in questo limbo, che sono qui magari da venti o trent’anni ma che non possono essere regolarizzati e che quindi devono stare sempre attenti perché possono essere deportati da un momento all’altro. L’idea originaria era di inventare una storia con questo sfondo, cercare di capire la psicologia di chi vive qua, considera questo il suo Paese ma che non si sente amato né voluto, considerato un criminale in quanto illegale. Poi però è scoppiata questa pandemia e mi sto occupando molto di ciò che sta accadendo facendo interventi televisivi e scrivendo articoli di giornale. Quindi sto pensando che in questo prossimo libro dovrò parlare anche di queste cose. Infatti sto leggendo romanzi che parlano della società dopo grandi catastrofi come quella di Chernobyl e il romanzo che Don DeLillo scrisse dopo l’11 settembre (L’uomo che cade, ndr). Sullo sfondo di una storia d’amore o familiare, intima, voglio raccontare tutti questi accadimenti dai quali secondo me non si può prescindere. Le nostre vite sono fortissimamente influenzate da quello che succede nella società, dalla politica, dagli avvenimenti storici. Perciò anche in questo secondo romanzo vorrei parlare di tutto questo. È quasi un lavoro di cesello, non è facile trattare temi sociali e metterli insieme in una trama che funzioni senza stancare il lettore. Tra l’altro non essendoci ancora vere e proprie analisi di ciò che stiamo vivendo, per me è anche una scommessa per comprendere il mio tempo. È una sfida, ma se non mi pongo obiettivi difficili mi annoio”.