L’anno è il 1973, l’età ventidue anni. Sono venuto in Abruzzo a trovare i miei genitori, in vacanza nella loro amata casetta di montagna di Prati di Tivo, proprio sotto al Gran Sasso. Loro due sono molto contenti in questo posto. Felici, attorniati da tanti amici con cui condividere l’estate. Organizzano pranzetti, passeggiate, partite a carte e gite serali nei ristorantini della costiera adriatica, per mangiare il pesce. Mi hanno chiesto tante volte di passare a trovarli anche negli anni scorsi, ma non ci sono andato mai, perché avevo sempre troppo da fare con i miei amici, le mie fidanzate, le mie partite a calcio, il mio gruppo rock, i miei impegni di vario tipo e, soprattutto, perché proprio non mi andava. Adesso che sono arrivato da meno di tre ore, capisco anche il perché non mi andava. Perché tutte le persone che stanno qui hanno più del doppio della mia età, anzi quasi il triplo. I loro capelli sono tutti bianchi oppure zero capelli proprio. Parlano di cose che non mi interessano e, soprattutto, fanno cose che non mi interessano. Non sanno chi sono i Beatles, i Rolling Stones, Jimi Hendrix e neppure hanno mai letto On the road di Jack Kerouac, tanto per citare alcune minime cose che loro non sanno e che, invece, a mio avviso tutti gli esseri umani degni di questo nome dovrebbero conoscere perfettamente. Sono troppo pragmatico? Non lo so. Però so che io qui già mi annoio mortalmente. Vedete come sbadiglio?
Mi affaccio mestamente dalla finestra a guardare la mia cara cinquecento Fiat, parcheggiata sotto casa, e mi viene già voglia di risaltarci sopra, di fuggire subitissimo per tornare in città. Ma poi l’occhio mi cade sulla seggiovia che sale verso la montagna, con i suoi seggiolini colorati e il lungo cavo d’acciaio che sembra un filo per stendere i panni e invece è un cavo d’acciaio dove non si possono stendere i panni.
«Che c’è lassù?», domando a mio padre.
«Il Gran Sasso.»
«Perché i turisti ci vanno?»
«Per fare le passeggiate in cima alla montagna.»
«E’ bello?»
«Bellissimo.»
Così, pur di rompere la noia che mi sta attanagliando perdutamente, nel primo pomeriggio eccomi pronto alla mia prima passeggiata sul Gran Sasso che molto probabilmente potrebbe essere anche l’ultima. Papà mi ha procurato un meraviglioso zainetto che ha l’età di Giulio Cesare e dentro al sacco mia madre ci ha messo un po’ di frutta, una scatoletta di carne Simmenthal e un panino con salame e formaggio.
«Perché tutta ‘sta roba, mamma?»
«Perché non si sa mai.»
Mio padre, invece, all’ultimo momento, infila dentro allo zaino un piccolo libro e anche una torcia tascabile.
«Perché, papà?»
«Perché non si sa mai.»
Mentre salgo con la seggiovia mi accorgo che il tempo sta peggiorando. C’è un grosso nuvolone che vuole acchiappare il sole e farlo a fettine. Quando si dice la fortuna. Arrivo su dopo una quindicina di minuti e chiedo subito al gentile ragazzotto che lavora all’impianto quali sono le più belle passeggiate da fare.
«E io che cacchio ne so?», risponde lui molto carinamente.
Con la coda dell’occhio vedo però un uomo e una donna di una certa età che hanno appena imboccato un sentiero in salita. Sul fianco c’è un cartello con un’indicazione: Rifugio Franchetti. Così seguo quei due e prendo a salire. E’ più o meno a metà percorso che inizia a piovere. Ma non è una pioggia normale. E’ un diluvio. L’acqua mi entra dentro da tutte le parti e non riesco neanche a vedere bene. Disperato, arrivo finalmente in vista del Rifugio. Entro e non trovo nessuno. Anzi qualcuno trovo e cioè quei due signori che avevo visto salire prima. Sono marito e moglie, i due gestori, mi dicono che se voglio posso dormire ma da mangiare non c’è niente.
«Dormire qui? Ma state scherzando?», esclamo contrariato.
«Guarda, coso, che abbiamo ascoltato le previsioni del tempo e il diluvio durerà fino a domani mattina. Anzi, forse peggiora addirittura», rispondono praticamente in coro.

In quel preciso momento il lampo di un fulmine scintilla a pochi metri dall’edificio, accompagnato da un potentissimo tuono. Immediatamente va via la luce e non torna più. Sono disperato. Più passa il tempo più mi convinco che sarò davvero costretto a passare lì la notte. Più tardi i due mi mostrano la stanzetta con una brandina e mi danno anche una coperta un po’ ruvida. Poi se ne vanno a dormire al piano di sopra. Così resto solo come un cane. Però almeno ho da mangiare le cose che mi ha dato mia madre e anche la torcia elettrica che mi ha dato mio padre.
Com’è che avevano detto loro? Ah, sì: perché non si sa mai. In più ho anche un libro che mi ha messo mio padre, non ho neanche avuto il tempo di vedere di che si tratta. Così lo tiro fuori dallo zainetto. L’autore è Giorgio Bassani, il titolo è Il giardino dei Finzi Contini. Dò una sbirciatina alla sinossi sul retro. Aiuto! Dov’è il mio Kerouac? Inizio a leggere la prima riga. “La tomba era grande, massiccia, davvero imponente…” Aiuto! Dov’è il mio Kerouac? Poi, per forza di cose, non avendo alcun’altra alternativa, continuo a leggere sotto la coperta, alla debole luce della torcia e, piano piano, mi inoltro sempre di più nella storia di questa curiosa e ricca famiglia ebrea che vive a Ferrara negli anni trenta.
Nel giro di pochi minuti accade l’incredibile e cioè che io sono letteralmente rapito dalla storia e dal modo in cui viene raccontata, divento quasi un personaggio del libro. Mi vedo allora andare a giocare nel meraviglioso campo da tennis all’interno della villa, chiacchierare di letteratura con il vecchio signor Ermanno, parlare con suo figlio Alberto come se fosse un mio vecchio amico e naturalmente innamorarmi della bellissima e misteriosa Micòl, proprio come fa il protagonista della storia. E poi, esattamente come a lui, mi monta una rabbia assurda nei confronti dell’ingiustizia di quelle leggi razziali proclamate nel ’38. Penso alla cattiveria dell’essere umano, a come può essere ottuso e spietato e quando, nelle ultime pagine del libro, l’autore ci racconta che tutta quella bellissima famiglia viene deportata nei campi di sterminio, ripenso a tutti i milioni di ebrei che sono stati uccisi e prego fortemente che mai più si ripeta nel mondo una cosa così terribile. E poi, prima di spegnere la torcia e addormentarmi, ringrazio tanto anche mio padre perché dentro lo zaino ha messo un libro così bello, opera di uno scrittore che non conoscevo e che, caro Kerouac scusami proprio, scrive molto meglio di te anzi come si dice a Roma, Bassani a Kerouac je dà ‘na pista!