Siamo nel pieno delle celebrazioni che segnano l’ottantesimo, triste anniversario della promulgazione delle leggi razziali, una serie di misure legislative che rese di fatto gli italiani di religione ebraica, cittadini di serie B. Precedute dalla pubblicazione del delirante Manifesto della Razza, nell’estate del 1938, le leggi più importanti furono emanate a partire dal settembre del 1938, ma leggine, decreti, circolari applicative ed esplicative in materia continuarono ad essere sfornati fino al 1943 e anche oltre nella Repubblica Sociale Italiana. Fra le altre cose si proibiva agli ebrei italiani la frequenza di scuole e università pubbliche sia come studenti che come docenti; i libri di testo di autori ebrei dovevano essere sostituiti, tutte le menzioni degli ebrei e dell’ebraismo in qualunque libro di testo doveva essere cancellata. Gli ebrei erano inoltre esclusi dal praticare la professione di giornalista, notaio e da quasi tutte le altre professioni intellettuali; non potevano prestare servizio militare, né come soldati né come ufficiali, non potevano essere proprietari di terreni e fabbricati al di sopra di un certo valore e non potevano possedere imprese. Era inoltre vietato agli ebrei di sposare cattolici e di avere alle proprie dipendenze personale ‘ariano’.
Le leggi razziali italiane non furono meno drastiche o devastanti di quelle tedesche o di altri paesi europei, come in Italia si sente spesso ripetere e anche l’applicazione delle leggi stesse, con qualche minima eccezione, fu condotta con rigore e senza alcuna flessibilità, anche perché le premesse teoriche del razzismo antisemita italiano avevano le stesse premesse pseudo-biologiche e pseudo-scientifiche dell’antisemitismo nazista. Un silenzio assordante da parte della società italiana accolse la promulgazione delle leggi razziali. La Chiesa Cattolica avanzò qualche riserva sulla legislazione matrimoniale che sembrava sottrarle la competenza assoluta in materia che il Concordato le aveva accordato, ma per il resto non sembrava che questa legislazione che di colpo privava cittadini italiani a tutti gli effetti dei loro diritti più fondamentali fosse un problema o un ingiustizia per vescovi e cardinali italiani. Qualche timida rimostranza diplomatica subito silenziata fu l’unica reazione che la Santa Sede oppose a queste leggi.
Nelle università nessuna voce si levò per denunciare la frode del fondamento ‘biologico’ del razzismo italiano. I 10 firmatari del manifesto della razza, mantennero i loro incarichi accademici anche dopo la caduta del fascismo, mentre circa 300 docenti fra ordinari, associati e liberi docenti vennero licenziati in tronco e prontamente rimpiazzati da colleghi ‘ariani’. Dopo la Liberazione solo 28 dei 96 professori ordinari ebrei riprese servizio e di questi molti vennero reintegrati nei ranghi delle università di provenienza, ma non poterono ritornare alla loro cattedra che nel frattempo era stata occupata da un altro.
L’università di Pisa (fu nella tenuta di San Rossore, vicino a Pisa che il Re firmò la prima mandata di leggi antisemite) e il suo Rettore si sono fatti recentemente promotori di una cerimonia di pubbliche scuse da parte del mondo accademico per i licenziamenti e le ingiustizie inflitte dalle università italiane ai loro studenti, docenti ed impiegati ebrei. L’iniziativa è stata senz’altro ispirata da motivi nobili e dal sincero desiderio di rimediare a un’enorme e criminale ingiustizia, ma mi è sembrata ancora una volta un’operazione italiana per mettersi la coscienza a posto con poco. La morale ebraica insegna infatti che le scuse e le richieste di perdono possono venire solo dalla persona colpevole e possono essere rivolte solo alla parte lesa che è l’unica ad avere diritto a decidere se perdonare o no. Essendo passati 80 anni non ci sono praticamente più né colpevoli né vittime e le scuse suonano per tanto un po’ vuote. Quello che le università potrebbero fare sarebbe l’istituzione di cattedre e dipartimenti per lo studio dell’ebraismo italiano, quasi completamente assente dai nostri atenei. Lo studio serio e approfondito in tutti i suoi aspetti della più antica tra le minoranze presenti nella penisola servirebbe a far riflettere i nostri universitari sul fatto che le minoranze, di qualunque tipo, rappresentano sempre una ricchezza e mai un impoverimento per il paese. Questo, più della ‘cerimonia di scuse’, sarebbe il modo più serio per onorare la memoria degli studiosi e scienziati ebrei italiani che furono tra le prime e più numerose vittime di quelle infami leggi.
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