Cosa avrebbe detto David Foster Wallace della foto del bambino curdo annegato sulla costa turca? Avrebbe parlato di voyeurismo del dolore o della necessaria denuncia di un dramma epocale?
Chiederselo non è un esercizio così ozioso, considerato il ruolo di "faro" che ha assunto nei confronti di tanti lettori, in particolare quelli giovani e di cultura medio-alta. Un ruolo – una devozione – che pochi altri scrittori a cavallo fra i due secoli hanno rivestito e suscitato: forse Murakami, ecco, e prima di lui forse Kundera.
Di certo, avrebbe detto qualcosa di intelligente, con parole complicate e in parte inventate, come si addice a un seguace di Wittgenstein (a sua volta un "faro"). Si sarebbe interrogato sul come una società fondata su valori umanistici possa convivere con questo genere di vicende scioccanti, senza mostrare più di un superficiale turbamento emotivo, e poi “continuando ad agire come se il problema non esistesse”, per usare le parole che adoperò per commentare sofferenze di tutt'altra gravità, quelle animali (un tema caro agli autori americani: DFW ha scritto di aragoste, Jonathan Franzen di uccelli, mentre Safran Foer è, come noto, il campione dei vegetariani).
Devo confessare una cosa dopo questa lunga premessa in parte forse fuori luogo: fino a qualche tempo fa provavo un'istintiva diffidenza nei confronti di David Foster Wallace (Itacha, 1962, Claremont, 2008). Dovuta non solo allo scarso apprezzamento di alcuni suoi racconti – troppo verbosi e pieni di dettagli inutili – ma anche a ragioni di natura estetica. Il che, mi rendo conto, è profondamente ingiusto nei confronti di un narratore. Mi indisponeva quell'aria un po' da guru tardo-freak (o proto-hipster), quella bandana abbinata al fisico ipervitaminico, persino il suo suicidio a soli 46 anni, quantunque ritenga che alla sofferenza psichica vada tributato il massimo rispetto. In seguito avevo trovato leggermente fuori registro l'omaggio postumo di Jonathan Franzen, con il suo resoconto sulla dispersione delle ceneri dell'amico in un'isola del Pacifico meridionale. Solo di recente mi sono riconciliato con l'autore di Infinite Jest (e di altri libri i cui titoli spesso sono degni di quelli delle canzoni di Morrissey). Dopotutto, la mitologia sembra essere parte integrante del fascino che esercitano alcuni autori, da Hemingway a Kerouac, passando per
il nostro Pasolini, al quale, al pari di Foster Wallace (e di Wittgenstein!) anche il cinema ha riservato le sue attenzioni.

Un’immagine del film The End of the Tour
Il cinema, appunto, in questo momento sta rilanciando la sua fama in tutto il mondo. Parliamo di The End of the Tour, di James Ponsold – ispirato al libro-intervista Come diventare se stessi di David Lipsky – che ha fatto incetta di ottime recensioni e di altrettanto brillanti stroncature.
Era Foster Wallace un genio? O è stato sopravvalutato? Era un artista dalla personalità torturata o un egocentrico che si permetteva di sputtanare gratuitamente il povero Ethan Awke durante una lettura alla Barnes & Noble di Union Square? Alcuni scrittori sembrano impermeabili alle mezze misure.
Sollecitano pareri forti, dichiarazioni di fede. Forse ha ragione Martin Amis, citato da Francesco Pacifico in un suo articolo sul "nostro", nel puntualizzare: “Quando diciamo che amiamo uno scrittore, intendiamo che amiamo al massimo metà della sua opera”. E se questo è vero, chiosa Pacifico, “gli adoratori di Wallace dovrebbero tenerlo presente quando guardano storto chi non lo ama”.
Il tifo eccessivo ha nuociuto a DFW, la cui opera, accolta subito in maniera estremamente favorevole dalla critica e anche dal pubblico, è stata pubblicata in Italia da vari editori: Fandango (il primo a dare alle stampe Infinite Jest, dopo la pubblicazione in America nel 1996), Einaudi, Minimum Fax, e spero di non aver dimenticato nessuno. Voglio dire: si può essere un autore valido, a tratti geniale, senza essere necessariamente l'Autore. Ecco, forse più di tutto questo mi infastidiva, in lui: quella che percepivo come un'ambizione sfrenata, autodistruttiva. Le oltre mille pagine del suo lavoro fondamentale – erano molte di più prima dell'editing, dal quale si sono comunque salvate anche centinaia di note – sembravano fatte apposta per essere calate sul panorama letterario come una bomba. Impossibile non lasciarsi intimidire da un'opera tanto voluminosa, quando non si era ancora smaltita la lezione minimalista, la passione per Carver e il suo (o di Gordon Lish) "tagliare fino all'osso".
Bisogna superare tutto questo per accostarsi a mente sgombra a DFW e apprezzarlo. Per abbandonarsi senza riserve alla saga della famiglia Incandenza, proiettata sullo sfondo di un mondo futuro molto simile al nostro presente, tanto simile che la definizione di "fantascienza" è certamente riduttiva.
Si è detto – lo fa ad esempio Gian Paolo Serino su Il Giornale – che al fondo lo scrittore pesca a piene mani dai lasciti di altri autori, ma questo non è un demerito: T.S. Eliot (che non era postmoderno ma modernista, e a sua volta amava le note) chiuse un secolo fa il poema definitivo del '900, un poema in tutto e per tutto citazionista, con una
sentenza lapidaria, “con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”.
Si è detto che Wallace massacra la trama, ma per quanto possa sembrare difficile seguire il filo di Infinite Jest, saltando continuamente dal tennis alla marijuana, dai separatisti quebecchesi alle infinite divagazioni farmaco-tecnologiche – ancora prive di internet e Facebook – se uno ha letto il Burroughs di Nova Express sa che cosa significa fare davvero a pezzi il plot.
No, non stiamo parlando di un libro difficile o illeggibile. E nemmeno di un'opera triste, infarcita com'è di humor ("allegria di naufragi" mi è sempre sembrata un'espressione geniale per descrivere un certo modo). Stiamo parlando di un libro che conquista, al pari del programma TV "letale" da cui prende il titolo, e su cui molti vogliono mettere le mani perché un programma che ti inchioda al divano per sempre è un'arma formidabile. E in definitiva, probabilmente non stiamo parlando nemmeno di un autore che cercava la notorietà a tutti i costi; chi lo ha conosciuto bene ne parla come di una persona sensibile e generosa.
Forse semmai alcune delle ossessioni di DFW si sono rivelate fin troppo profetiche, e ciò che all'inizio è profetico presto rischia di diventare trendy, quindi soggetto a rapido decadimento, come accade a tutte le mode. Fra 20 o 30 anni ci riconosceremo in questa visione del futuro prossimo? Le droghe, le dipendenze in genere, la società dello spettacolo, in particolare quella dell'intrattenimento visivo. La ricerca compulsiva del piacere. La violenza seriale. Le corporazioni che sponsorizzano tutto, persino i nomi degli anni (il 2010 diventato l'Anno del Pannolone per Adulti Dépend). L'unione di America-Canada-Messico (Onan) che produce una spaventosa catastrofe ecologica, una voragine grande come uno stato che ingoia ogni genere di rifiuti. DFW sarà considerato l'Orwell o l'Huxley della sua generazione?
L'opera di Wallace sembra a volte il parto di uno studente universitario brillante, coltissimo e disturbato. La sua grandezza – ma anche i suoi limiti – sta tutta lì. Su un altro campo da gioco, mi fa pensare stranamente ad Andrea Pazienza, a Rank Xerox. Ai fumetti di Frigidaire. Ve li ricordate? Una capacità non comune di restituire, debitamente trasfigurati, i dati di realtà, specie nei loro aspetti più sinistri e grotteschi. Una narrazione influente e provocatoria. Ma soggetta all'usura del tempo.
Parlando di uno scrittore che ha voluto farsi Re, infine, è impossibile sottrarsi alla sfida dei confronti. E dunque, sbilanciandomi: Infinite Jest è, sì geniale, ma per conto mio inferiore a Underworld di Don De Lillo, un altro libro che scardina la consecutio temporale, perché De Lillo non ha avuto bisogno di rifugiarsi nel futuro ma ha lavorato sul presente (nucleare) e sul passato prossimo dell'America (i Kennedy, il baseball, gli Stones in tour). Ed è inferiore a Le correzioni dell'amico Franzen, narratore più classico e universale. Certo, certe pagine di DFW in cui si descrivono i labirinti mentali di tossici o aspiranti suicidi sono fantastiche, come ha detto giustamente Dave Eggers (uno dei suoi critici e prefatori), ma la calata nell'universo allucinato di un malato di Alzheimer proposta da Franzen (con l'Alfred Lambert de Le correzioni) lascia un segno più profondo. Per l'umanità con cui viene raccontata.
In Italia Infinite Jest è disponibile attualmente nell'edizione Einaudi Stile Libero (trad. Nesi, Villoresi, Giua). Edizione originale USA di Little, Brown e Co. (1996). Nel 2005 Time ha collocato il romanzo fra le 100 più importanti opere in lingua inglese pubblicate dal 1925.